Coronavirus, come cambia il lavoro: crollo dei contratti a tempo determinato e abisso di disparità di genere nell’home working

Rispetto allo scorso anno sono stati attivati 200mila contratti di lavoro a tempo determinato in meno. Mentre lo smart working in lockdown aumenta il divario di genere

Come la crisi e l’emergenza sanitaria scatenate dalla pandemia di Coronavirus stanno cambiando il mondo del lavoro in Italia? Se l’è chiesto l’Anpal – Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. In un quadro di shock economico che ha travolto «come una tempesta» il sistema nazionale e mondiale, il lockdown si è tradotto in un crollo dei contratti a tempo determinato: -200mila. 


Il report

Se nei primi mesi dell’anno, prima della serrata nazionale decisa per combattere l’epidemia, i dati parlavano di un quadro di attivazioni di contratti a tempo determinato e indeterminato in linea con quanto rilevato nello stesso periodo del 2019, la crisi sanitaria, fin dal primo momento, ha fatto registrare un peggioramento immediato. «Per quanto inizialmente circoscritte, le misure adottate e l’ipotesi dell’allargamento territoriale del contagio hanno influenzato anche il resto del territorio nazionale», si legge sul report dell’Anpal


La data spartiacque è il 9 marzo, quando è stato emanato il decreto del presidente del Consiglio dei ministri che ha chiuso il Paese (rendendo l’Italia «zona protetta», diceva il premier Giuseppe Conte). Da allora il mondo dei contratti di lavoro è cambiato. «Al 23 aprile scorso, in termini assoluti, il 2020 registra un deficit di circa 735mila attivazioni rispetto al 2019, con variazioni tendenziali che nella seconda metà del mese di aprile superano il 20%».

Allo stesso tempo non si tratta di licenziamenti, ma di mancati rinnovi, dato il blocco dei licenziamenti introdotto con il Decreto-Legge 17 marzo 2020, che riduce sì le cessazioni di contratti di lavoro, ma in modo non sufficiente «a compensare il crollo delle attivazioni». Una misura, si legge sull’approfondimento dell’Anpal, che ha «indubbiamente calmierato l’andamento delle cessazioni, ma nulla ha comunque potuto rispetto ai rapporti di lavoro a termine che, giunti alla fine del periodo contrattuale, sono ‘naturalmente’ cessati». 

E sono, prevedibilmente, soprattutto le regioni del Centro Nord a mostrare le contrazioni maggiori nei flussi di assunzione, con Toscana, Liguria, le Provincie Autonome di Trento e Bolzano e il Veneto «che segnano riduzioni superiori al 30% e prossimi o superiori (come nel caso della P.A. di Bolzano e della Toscana) al 60% se si guarda ai flussi dal 23 febbraio in poi». 

I settori più colpiti sono quelli legati ai servizi e alla ristorazione. E «a causa dell’interruzione della coda della stagione turistica invernale, e il mancato avvio delle assunzioni per la fase primaverile, il settore turistico alberghiero si contrae di oltre il 52%». Un deficit, dice l’Anpal, di quasi 300mila unità rispetto allo scorso anno, vale a dire quasi il 40% del totale della contrazione dei nuovi contratti rilevati nel periodo.

Smart working?

C’è un’altra indagine questa volta promossa dall’ufficio politiche di genere della Cgil in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio, che racconta come nelle ultime settimane, circa 8 milioni di italiani e italiane hanno lavorato da casa o comunque da remoto, a fronte del mezzo milione che lavorava in smart working nell’era pre-Covid.

«Più che di smart working possiamo parlare di home working», scrive la Cgil in una nota. «L’82% delle lavoratrici e dei lavoratori ha iniziato a lavorare da casa con l’emergenza Covid19, e la stragrande maggioranza è “precipitata” nel lavoro smart senza alcuna riflessione su organizzazione del lavoro e degli spazi e senza adeguata preparazione, con evidenti differenze di genere».

Tra gli oltre 6mila intervistati emerge che quello che si è verificato a causa dell’emergenza è stato un «semplice trasferimento a casa dell’attività svolta fino a qualche giorno prima in ufficio». Non già smart working (ex legge n.81/2017), né telelavoro. Il 45% dei casi ha dichiarato che il lavoro non è cambiato, è cambiato parzialmente per il 32%, e solo totalmente per il 23%. Poca o nessuna attenzione viene prestata al diritto alla disconnessione (56%). Si lavora in spazi ricavati (50%), o si vaga per casa (19%).

ANSA/Angelo Carconi | L’ex segretaria generale, oggi responsabile delle politiche di genere della Cgil Susanna Camusso durante la manifestazione nazionale dei pensionati di Cgil, Cisl e Uil “Dateci retta” in piazza San Giovanni, Roma, 1 giugno 2019.

E sì, c’è il tema da più parti segnalato e che viene fotografato dai numeri: il lavoro da casa «è per le donne più pesante, complicato (+8% rispetto agli uomini), alienante e stressante ( +9%), mentre per gli uomini è più stimolante e soddisfacente, ed è maggiormente assimilabile al lavoro tradizionale».

Lo smart working «non può essere una forma di conciliazione», affonda Susanna Camusso, responsabile delle politiche di genere della Cgil. Le donne «sono più penalizzate e discriminate, sia sul fronte relazionale che su quello prettamente professionale». Servono quindi regole «per renderlo un lavoro effettivamente smart e non una trasposizione di un lavoro fordista dentro le mura di casa».

Dopo questa esperienza, dobbiamo porci il problema di fare in modo che nei nuovi contratti collettivi e aziendali ci siano elementi che permettano di affrontare i bisogni di chi lavora in smart working, e quindi discutere di temi come il diritto alla disconnessione e alla formazione, dice Maurizio Landini. Lo smart working «per essere un’esperienza positiva e soddisfacente per le lavoratrici e i lavoratori va organizzato e contrattato con le organizzazioni sindacali».

Leggi anche: