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Terry Willis e le mille miglia a piedi per ricordare George Floyd

11 Luglio 2020 - 18:28 Laura Siviero
35 anni due figli, orfano, ha deciso di dedicare la sua marcia a George Floyd. «In questa marcia ho imparato che non sai cosa ha passato la persona che incontri», dice a Open

«Quando ho visto il video della morte di George Floyd, ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa di eccezionale, un’impresa che restasse, a testimoniare che la strada per l’uguaglianza è ancora lontana». Terry Willis è partito dall’Alabama, a piedi, ha percorso oltre mille miglia per raggiungere il Minnesota, il paese in cui Floyd è diventato, malgré soi,  un altro simbolo di quell’America irrisolta (quanti ancora? Di quanti altri simboli abbiamo ancora bisogno?). Terry si è caricato addosso la colpa del suo Paese, si è vestito di bianco, un bastone da cammino e l’ha portata per le strade, in un percorso di espiazione, in un viaggio escatologico di cui lui è l’epifania.

Alto, nero, 35 anni, due figli, Dallas  di 7 e Autumn di 9, ai quali dedica questa fatica, con un approccio pedagogico, «perché capiscano, perché sappiano che quando un evento è smodato, la risposta deve essere estrema. Mi sono chiesto: qual è la cosa più difficile, più grande che possa fare? Il Signore mi ha chiamato. Mi sono alzato e sono partito», racconta ad Open. Gli Stati Uniti sono ancora un paese in cui Dio parla molto agli uomini, li convoca uno per uno per missioni, gli fornisce la mappa della salvezza.

Un’immagine tratta dal profilo Facebook 1kmilemarch

Ha lasciato la sua città adottiva, Huntsville, per arrivare a Minneapolis, nel luogo esatto in cui Floyd è stato ucciso, con una deviazione a Lansing, attraverso Louisville per onorare Breonna Taylor, uccisa il 13 marzo di quest’anno dagli agenti di polizia, poi a Ferguson in memoria di Michael Brown, il diciottennne ucciso nel 2014 sempre dagli agenti della polizia e a Chicago per Laquan McDonald l’afroamericano di 17 anni assassinato sempre nel 2014, sempre dalla polizia in circostanze poco chiare. Una via crucis dell’odio razziale, verso il calvario del Minnesota.

La storia di Terry

Solo dalla nascita,  Terry ha trascorso la sua vita passando da un orfanotrofio all’altro, prima a Dallas in Taxas, dove è nato, poi in Michigan e da dieci anni in Alabama. «Un’infanzia complessa di affidi, case famiglia, programmi speciali, per 18 anni», ci spiega. Oggi lavora come mastro carpentiere ed è bravo, molto bravo! dice di sé, con acuta fierezza. Non ha moglie, racconta con calma, non ce l’ha.

Non traspare nel suo tono di voce alcun revanscismo, non un lamento, non un fiato, è senza giudizio. Non è pronto a condividere ogni dettaglio del suo passato, fatica a esprimere le emozioni,  ma il cammino lo ha cambiato «cerco di non giudicare le persone. Ho imparato (in questa marcia), che non sai cosa ha passato la persona che incontri. Nessuno sa cosa ho passato io».

E’ partito da solo con una piccola scorta della polizia locale e un’auto che lo segue fedele, lo filma, tiene i contatti con il mondo esterno e alimenta i bramosi social di video e foto. Lui marcia senza cellulare, nel silenzio, talvolta un po’ di musica. Non ha sponsor, prima di partire si è assicurato di avere personalmente tutti i soldi che gli sarebbero serviti, per portare a termine la sua impresa.

Poi sono arrivate donazioni dai supporter, (30mila follower), nel suo cammino ha incontrato centinaia di persone che talvolta si sono unite per alcuni tratti, hanno guidato al suo fianco, hanno marciato con lui, gli hanno indicato la via, hanno immortalato gli attimi, creato hashtag. Altre gli hanno portato acqua, barrette proteiche, persino scarpe, 15 paia! in questi 36 giorni di marcia. Persone di ogni tipo, colore, età.

«Mi ringraziano,  mi spronano a non mollare, quando sento la fatica, quando le gambe mi fanno male e  la schiena brucia». Ma il suo è un messaggio semplice e vuole che resti tale. Niente politica qui. «Sono solo un ragazzo semplice, che ha visto uccidere qualcuno e ha sentito il dovere di fare qualcosa. Non voglio entrare in politica, il mio cammino non ha a che fare con la politica, desidero soltanto far sentire la voce più in alto, raccogliere il grido di molti».

Una marcia per i diritti e per la giustizia, un andare che ricorda anche i pellegrinaggi medievali, dimostrativi eppure gratuiti, penitenziali, e insieme liberi. Domani sarà arrivato a destinazione. Tutto sarà compiuto. La meta è precisa, simbolica, ma si realizza nell’andare. «No hay camino, hay que andar».

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