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La proroga di Stato dei contratti a termine, la brutta sorpresa di fine luglio – Il commento

La legge di conversione del DL Rilancio obbliga le aziende ad allungare i rapporti a termine per chi ha usato la cassa integrazione

Il diritto del lavoro dell’emergenza ha assunto, nel nostro Paese, una coloritura fortemente dirigista, come dimostra il provvedimento più discusso e noto di questi mesi, il c.d. divieto di licenziamento. Questo approccio nasce dalla completa sfiducia nella capacità del  mercato di regolare in modo efficiente le dinamiche del lavoro e dalla volontà del legislatore di sostituirsi ad esso, tracciando la strada delle scelte economiche delle aziende.

In questo solco si colloca l’ultima trovata sul lavoro a termine: una norma della legge di conversione del DL Rilancio (art. 93, comma 1 bis, legge 77/2020) obbliga le aziende a prorogare i contratti a termine e di somministrazione per una durata pari al periodo in cui i lavoratori sono stati collocati in cassa integrazione.

Un vincolo irragionevole che potrebbe produrre effetti paradossali. Si pensi a un’azienda colpita dalla crisi che ha dovuto mettere in cassa per due mesi un lavoratore a termine, il cui contratto scadeva il 30 luglio; questo lavoratore dovrà essere prorogato fino al 30 settembre, anche se quell’azienda non ne ha più bisogno oppure è in crisi o, addirittura, si avvia al fallimento. E quest’azienda dovrà pagare il lavoratore anche tenendolo a casa.

Una regola cieca che si accompagna a moltissimi dubbi tecnici sulla sua realizzazione concreta: non si comprende come va comunicata ai lavoratori, cosa succede ai contratti commerciali di somministrazione, come si calcolano i periodi di sospensione, quali conseguenze ci sono in caso di violazione.

Come sempre, le imprese vengono trattate dal legislatore alla stregua di ammortizzatori sociali impropri, chiamate a portare sulle proprie spalle, per intero, tutto il peso degli effetti occupazionali della crisi post Covid.

Eppure sul lavoro a termine c’era una strada per fare scelte intelligenti e rispettose del mercato: sarebbe bastato rendere effettiva la c.d. sospensione del decreto dignità, un congelamento dei vincoli introdotti nel 2018 che stanno lasciando fuori dalle imprese centinaia di migliaia di lavoratori flessibili (come certificano tutti gli indicatori recenti).

Congelamento che oggi è previsto da una regola sostanzialmente inapplicabile (la c.d. acausalità fino al 30 agosto), che andrebbe riscritta e rivista dalle fondamenta per consentire l’incontro tra domanda e offerta di manodopera secondo meccanismi più sani del “collocamento di Stato”.

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