Judith Butler: «La pandemia mette in pericolo le conquiste sociali. È ora di una coalizione radicale di femministe e transgender»

La filosofa americana, punto di riferimento dei gender studies nel mondo, spiega a Open l’impatto della crisi sui diritti civili. E perché il lutto è diventata una richiesta politica

A poco più di quarant’anni Judith Butler è diventata una rock star della filosofia per aver sancito che il genere non dipende dal sesso di nascita, ma dai giochi e dalle ambizioni trasmessi da famiglia e società. Maschile e femminile  – ha scritto nel 1990 nel libro cult Questioni di genere – sono un “costrutto sociale”. Che tradotto vuol dire: se vestirai tua figlia di rosa, la farai giocare solo con le bambole e le dirai che le donne sono principesse, avrai prodotto – spesso senza averne consapevolezza – quella categoria culturale chiamata femmina a cui lei si conformerà per pace sociale o si ribellerà in nome della sua identità. 


In Italia e nel resto del mondo le idee della filosofa, docente amatissima dai suoi studenti dell’Università di Berkeley, sono arrivate con più di un decennio di ritardo, e così Butler è diventata contemporaneamente l’intellettuale di riferimento della comunità Lgbqt+ e il bersaglio globale di chi vede nella sue idee un pericolo per la società occidentale. 


Nel 2017, giunta a San Paolo per una conferenza sulla democrazia, è stata accolta da manifestanti no-gender inferociti che all’urlo di “strega” minacciavano di bruciarla viva come le colleghe di qualche secolo fa.  Qualche anno prima, i rappresentanti della comunità israeliana in Germania hanno cercato in tutti i modi di impedire proprio a lei, di religione ebraica, di ricevere il premio Adorno per le sue posizioni critiche contro Israele. 

Butler divide e ispira. E anche in questo momento il suo punto di vista su quello che accade in America – la pandemia con i suoi 168mila morti e le proteste senza fine contro la brutalità della polizia verso gli afroamericani – ha la capacità di sorprendere.  

Come quando dice che i due più grandi fenomeni della recente storia americana – l’elenco infinito di morti per Covid-19  e quello finalmente visibile di vittime della polizia – sono uniti dalla stessa matrice: il lutto. «Il movimento Black Lives Matter nasce dalla mancata elaborazione del lutto. La commemorazione di un defunto è il presupposto del valore della vita: negare la morte di una persona significa negare il valore della sua vita», dice dalla sua casa californiana dove vive con la compagna.   

Come si legano il Covid e le proteste?

«La diseguaglianza opera in molti modi nella nostra società. Uno, il più visibile, è accettare il principio secondo cui ci sono persone che muoiono più frequentemente e più facilmente di altre. Ed è quello che stiamo vedendo con il Coronavirus. Un altro modo, più sottile, è rifiutarsi di vedere alcune morti e non permettere ad amici e parenti di commemorarle. Ed è quello che è successo per anni a troppi afroamericani. Compiangere la perdita di una persona vuol dire urlare che quella vita non si sarebbe mai dovuta perdere ed è qui che il lutto diventa una richiesta politica». 

Dicono che il virus ci renda tutti ugualmente vulnerabili. Non è così? 

«Lo siamo in quanto esseri umani. Per ragioni biologiche possiamo essere tutti infetti e questo ci impone una condizione comune. I nostri corpi sono porosi, aperti, prendono aria dall’esterno, hanno bisogno di essere toccati e di toccare. I nostri liquidi passano da dentro e fuori e questo è un fondamento biologico dell’essere umano, dunque una condizione comune. Ma ciò non vuol dire che siamo uguali. Quelli che non hanno una casa dove ripararsi, quelli che non hanno accesso al sistema sanitario sono più vulnerabili. In America non consideriamo nessuna delle due condizioni un bene che lo Stato deve garantire ai suoi cittadini. Abbiamo impostato tutto su un principio legato al mercato: se trovi un lavoro, trovi l’assicurazione e la casa. E se trovi un lavoro migliore, trovi assicurazione e casa migliori.  Eppure ci sono tante persone che lavorano a tempo pieno e non hanno né accesso alle cure, né una casa che possono chiamare un rifugio adeguato. 

In questo momento in America ci sono dottori che devono prendere decisioni molto dolorose negli ospedali. Il punto è che non dovrebbero mai essere messi nelle condizioni di domandarsi a chi destinare un ventilatore o un posto letto: è un quesito che non si porrebbero se ci fosse un investimento nel sistema sanitario. Tutte le vite hanno lo stesso valore: se rinunciamo a questa definizione di eguaglianza perdiamo il quadro di riferimento etico in cui le politiche sociali vanno prese. Dopo questa pandemia io spero che le persone saranno finalmente in grado di capire che la sanità pubblica è un bene primario ovunque».

È ottimista. 

«In realtà sono molto preoccupata quando sento discorsi di chi crede sia necessario tornare a una vita semi-normale il prima possibile. È come se si fossero rassegnati all’idea di rinunciare ai più deboli, e che tocca abituarsi a fare delle scelte per andare avanti. Il solo domandarsi chi sia “il debole” e “il vulnerabile” all’interno della società porta con sé l’idea che alcune vite siano sacrificabili: è un principio fascista legato a eugenetica e darwinismo a cui dobbiamo opporci con grande forza».

La pandemia ha accelerato le diseguaglianze?

«Abbiamo visto come in molti Paesi per ragioni di salute pubblica legate al Covid-19 siano stati bloccati gli aborti e le transizioni ormonali. In generale la salute pubblica è sempre stata la croce di donne e gay: l’accesso alle cure e i trattamenti che sono scontati per molti, non lo sono per loro. E oggi è più che mai evidente.

Per quanto riguarda le donne, la crisi ha anche riesumato antiche forme di divisione del lavoro che credevamo dimenticate. C’è una strana fantasmagoria che siede sotto le politiche di contrasto alla pandemia: un’idea di famiglia tradizionale che non c’è più. Ci sono famiglie che non sono regolate dalla biologia o dai matrimoni tradizionali. Perché non vengono prese in considerazione dagli interventi dei governi?

Non abbiamo capito quanto velocemente il Coronavirus stia mettendo in pericolo una serie di conquiste civili e sociali. L’unico modo per evitarlo è una coalizione che tenga insieme femministe e movimento Lgbtq+ basata sull’eguaglianza sociale. Non abbiamo tempo per battaglie identitarie. Per questo sono molto preoccupata da una certa scuola femminista che non si preoccupa dei diritti degli altri, ad esempio delle persone transgender.
Mi sono emozionata quando qualche settimana fa ho visto decine di migliaia di persone sfilare a Brooklyn al grido di “Black trans lives matter” perché era una manifestazione che teneva dentro anime diverse. È tempo di una colazione radicale, qualcosa che sia più rivoluzionario del riconoscimento del matrimonio omosessuale. Un faro da seguire è Angela Davis, che vedo citata molto spesso negli articoli e nei saggi in circolazione».

Proprio durante la crisi del Coronavirus è esplosa la richiesta di giustizia degli afroamericani. Perché? 

«Sapevamo che qualcosa sarebbe cambiato con il Covid, ma probabilmente ci stavamo ponendo la domanda sbagliata. Mentre governi, aziende e molti cittadini parlavano di “riaprire il mondo” è diventato evidente il costo delle riaperture in termini di welfare e di vite. Fin da subito la crisi ha colpito in maniera più pesante la comunità nera. Una situazione prevedibile visto che gli afroamericani, in quanto poveri, non hanno accesso alle cure e al sistema sanitario. Le politiche del governo in materia di salute pubblica hanno sempre “permesso” la morte delle persone di colore. Contemporaneamente, un altro messaggio di morte ha preso centralità negli ultimi mesi: l’uccisione delle persone di colore da parte della polizia. Le due cose insieme hanno reso evidente come il razzismo in America sia la categoria capace di descrivere un sistema che lascia morire e uccide i suoi cittadini».

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