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Lavoro, è ora di abbandonare il “populismo giuslavoristico” per investire sulla modernizzazione del sistema – Il commento

Palazzo Chigi
Palazzo Chigi
Politiche del lavoro post Covid: troppi sussidi e divieti, mancano politiche attive e investimenti per i giovani

    Le norme approvate in questi mesi per fronteggiare l’emergenza Covid 19 hanno dato vita a un indirizzo di politica del lavoro abbastanza inedito per il nostro Paese (seppure qualche avvisaglia c’era già stata durante il primo Governo Conte): una forma originale di “populismo giuslavoristico” che rilegge in chiave molto conflittuale e semplificatoria, quasi didascalica, il rapporto tra lavoro e impresa, e produce “norme manifesto” che aspirano a trovare soluzioni semplici per problemi complessi. 

    Un indirizzo di politica del lavoro che non è scaturito da una scelta trasparente, pubblica e consapevole della maggioranza che sostiene il Governo, ma si è formato e consolidato giorno per giorno, tramite diverse norme comparse in maniera imprevista e imprevedibile all’interno dei provvedimenti del diritto dell’emergenza approvati durante questi mesi.

    Queste norme hanno affrontato temi differenti del mercato del lavoro con un’impostazione comune: creare vincoli, procedure e ostacoli alla libertà e autonomia delle imprese nella gestione delle questioni di lavoro, e assegnare al sindacato un ruolo centrale nella gestione di importanti aspetti della vita delle aziende. 

    Le norme sul lavoro durante l’emergenza

    Per trovare conferma di questa lettura basta scorrere in controluce le norme sul lavoro approvate in questi mesi, partendo dal provvedimento più noto, il divieto di licenziamento, una norma sconosciuta all’ordinamento repubblicano e alle principali economie occidentali, prorogata dal Decreto Agosto con una formula criptica che impone alle aziende di usare gli ammortizzatori sociali come strumento per nascondere gli esuberi. Una proroga che produrrà molti guasti, aggravando la crisi delle imprese colpite dal Covid e finendo per danneggiare più posti di lavoro di quanti ne protegga, e alzerà il muro già molto alto che impedisce ai giovani e ai precari di entrare nel mercato del lavoro.

    Il populismo giuslavoristico si è manifestato con forza anche nella proroga obbligatoria dei rapporti a termine, una misura spuntata a sorpresa durante i lavori di conversione del c.d. Decreto Rilancio senza essere preceduta da una vera discusssione con le parti sociali. 

    Una norma talmente sbagliata da essere abrogata poche settimane dopo la sua approvazione, figlia di un approccio ideologico al tema del lavoro flessibile, identificato già dalla precedente maggioranza come strumento del precariato. Un gigantesco errore di valutazione (perché il lavoro flessibile offre garanzie e opportunità) che ha prodotto un risultato paradossale: negli ultimi due anni sono stati combattuti i contratti flessibili regolari, mentre non è stato fatto nulla per combattere contratti precari quali le false partite iva, le co.co.co. irregolari e gli appalti illeciti.

    Il populismo giuslavorisico ha dato luogo anche al potenziamento acritico del ruolo del sindacato, che si è visto attribuire poteri di veto e di controllo su temi decisivi del mercato del lavoro: l’accesso alla cassa in deroga, la gestione dei protocolli di sicurezza anti-contagio, la durata dell’esame congiunto in caso di cessione di azienda, la garanzia Sace prevista dal Decreto Liquidità. 

    Accanto a questi interventi più visibili, abbiamo assistito al costante rimaneggiamento in senso rigido e vincolistico delle norme sul lavoro, il tutto in quadro di grande confusione e imprecisione tecnica. 

    Le misure assenti dal dibattito

    Accecato da questa costante ricerca di limiti per le imprese, questo inedito populismo giuslavoristico ha completamente ignorato alcuni temi che, invece, sarebbero centrali per la ripresa economica: è mancata qualsiasi discussione critica sulle politiche attive del lavoro e sui risultati di alcune scelte recenti (come i navigator), tema che sarà decisivo per gestire i tantissimi esuberi prodotti dal Covid, sono stati dimenticati gli investimenti nella formazione e nelle competenze digitali, c’è stato un totale disinteresse per la semplificazione del sistema normativo e degli adempimenti sul lavoro, non è stata neanche avviata la riflessione sull’impatto della grande trasformazione del lavoro imposta dal Covid e, prima di esso, dalla rivoluzione digitale.

    Cosi come è clamorosamente mancata ogni riflessione critica sulle misure da approvare per aprire le porte del mercato del lavoro ai giovani, colpiti dalla crisi post Covid in maniera dura nel silenzio assordante della politica.

    Invece che affrontare questi temi, che richiedono scelte difficili, impopolari e di lungo periodo, il Governo ha investito su una lista sterminata di micro sussidi in favore delle varie categorie di soggetti potenziamente colpiti dalla crisi. Il risultato complessivo di questa combinazione tra divieti e sussidi è sotto l’occhio di tutti: nella prima fase della crisi è stato evitato, con merito, un possibile incendio occupazionale, ma adesso manca qualsiasi spinta alla modernizzazione e riorganizzazione del mercato del lavoro, che sta diventando un ambiente sempre più ostile agli investimenti produttivi. 

    Ora più che mai serve la volontà, il coraggio e la capacità di invertire la rotta, impedendo che questa ostilità latente diventi talmente visibile da far scappare i capitali e il lavoro dal nostro Paese, dirottandoli verso ordinamenti più abili e capaci di noi a favorire gli investimenti e la creazione di nuova occupazione. 

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