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Il virus in Europa sta davvero frenando? Bucci: «Superato il picco: perché non si può parlare di rallentamento» – L’intervista

17 Novembre 2020 - 07:42 Giada Giorgi
Il biologo e professore della Temple University di Filadelfia spiega a Open come interpretare le voci di un rallentamento dei contagi sia in Italia che in Europa

Quando bollettini giornalieri continuano a collezionare numeri sempre più alti mettendo in crisi governi e interi sistemi sanitari, il leggero passo indietro delle cifre registrate può provocare grosse speranze. E così succede che in questi giorni la Francia festeggia il superamento ufficiale del picco e che in Germania, con misure restrittive ancora presenti, si cominci a parlare di numeri in via di stabilizzazione. Non da meno è l’Italia. Aggrappandosi al dato in diminuzione del tanto citato indice Rt, grida al rallentamento, sperando di essere sulla strada di uscita dalla seconda ondata di Coronavirus. Ma è davvero così? Lo scienziato Enrico Bucci, biologo e professore alla Temple University di Filadelfia, spiega a Open come leggere la notizia dei presunti contagi più lenti.

«Sul piano europeo bisogna ben specificare la differenza tra superamento del picco e rallentamento. Paesi come la Francia sono entrati ben prima di noi nella seconda ondata e quello che stanno registrando in questo momento non è un rallentamento ma un superamento del picco».

Che differenza c’è, professore?

«Il picco non è ambiguo: non possiamo parlare di un cambio di pendenza ma di una vera e propria discesa sul grafico, incontrovertibile nella sua valutazione. Il rallentamento al contrario è un segnale piuttosto ambiguo, dovuto a più fattori, differenti e sovrapposti tra loro. Quello che riguarda l’Europa attualmente è un superamento del picco».

E per l’Italia?

«I dati che stiamo raccogliendo sono insufficienti per poterci accertare di un effettivo rallentamento. Le curve si stanno piegando ma il punto vero è: per quale fattore in particolare? I livelli di saturazione delle strutture sanitarie sono molto alti, siamo arrivati ormai a linee guida che indicano di tenere i malati con 38 e oltre di febbre a casa se non hanno sintomi respiratori particolarmente gravi. Questo significa che negli ospedali arriveranno meno malati. La curva potrebbe piegarsi per questo. Potrebbe piegarsi perché le terapie intensive sono ormai allo stremo, ieri – 15 novembre – in Piemonte erano soltanto 10 i posti disponibili. Dunque se la trasmissione del virus non stesse rallentando nella sua velocità effettiva, di fatto la curva diminuirebbe lo stesso, con livelli simili di saturazione.

C’è allora un dato più attendibile degli altri?

«La curva dei morti. In linea di principio ci aiuta a capire un po’ di più cosa sta succedendo. Se comincia a diminuire di velocità potrebbe essere un segnale un po’ più affidabile. Ma mi lasci dire che l’esperienza della prima ondata ci fa essere prudenti anche su questo. Le persone venivano lasciate morire a casa, non venivano quindi registrate e solo i dati dell’Istat ci hanno poi permesso di ricostruire davvero come sono andati i decessi della fase di marzo. Nelle attuali condizioni siamo sostanzialmente ciechi.

E sull’Rt? L’Iss ha detto che è diminuito.

«Ricordando quanto ormai l’indice Rt sia stimato in una maniera totalmente inaffidabile, il dato che abbiamo è quello di una diminuzione all’1,4. Se anche fosse stimato in maniera super attendibile, parliamo comunque di un valore alto. Basti pensare che l’influenza ha un Rt intorno a 1,2. Si sta parlando quindi di un virus che, rallentamento o no, in questo momento si sta propagando più velocemente di un’influenza. Dunque vorrei che si sfatasse la sensazione di un’uscita dalla seconda ondata solo perché attorno a noi vediamo Paesi che stanno superando il picco. Siamo entrati mesi dopo rispetto agli altri e ne usciremo mesi dopo».

Non abbiamo dati affidabili, ma perché? Cosa ci sta impedendo di non sapere con certezza se si tratta di rallentamento oppure no?

Il problema più grande è che non raccogliamo i dati giusti, quelli cioè che hanno un significato di monitoraggio epidemiologico.

Ci può spiegare meglio?

Stiamo raccogliendo dati da tamponi effettuati con criteri differenti da Regione a Regione. C’è chi testa solo i sintomatici, c’è chi ha perso completamente la capacità di tracciamento. Non abbiamo un campione sentinella accurato che ci permette di seguire l’epidemia indipendentemente dalle politiche di campionamento territoriale.

Mi spiego meglio. Se cerco contatti tra i positivi troverò più positivi rispetto a quando traccerò persone prese a caso. Allo stesso modo, se testerò solo i sintomatici la curva tenderà ad accelerare. Se poi smetto di tamponare, come ormai molte Regioni in crisi stanno facendo, la curva tenderà di nuovo a rallentare. Tutti questi effetti sono combinati tra di loro in un equilibrio a noi oggi sconosciuto. A maggior ragione anche per il riferimento alle misure adottate dagli ultimi Dpcm. Non sappiamo quale di queste realtà stia prevalendo e se quindi si tratta di effettivo rallentamento dei contagi o ci sono altre ragioni».

Come si può fare per saperlo, professore?

«Attuando la proposta semplice ma efficace che la comunità scientifica sta chiedendo al governo dal mese di marzo. Di avere cioè un piccolo campione rappresentativo della popolazione italiana, di 30-40mila test a settimana, che sia scelto esclusivamente su base statistica e non perché si mostrano sintomi o altro, e che venga dedicato a seguire la curva epidemica. Così come si fa con i sondaggi politici, con le statistiche d’opinione. Si tratterebbe di una soluzione tra l’altro molto fattibile visto che i 40mila tamponi a settimana sono una quantità trascurabile rispetto al milione e oltre di test settimanali che si fanno attualmente. Senza tutto questo non siamo in grado di sapere né come sta andando l’epidemia stessa, né se quello che stiamo facendo sta servendo».

La risposta al mancato accoglimento di una proposta simile da parte del direttivo qual è stata?

«Non c’è mai stata risposta»

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