Giulio Regeni «seviziato per ore con bastoni e lame». Inchiesta chiusa: quattro 007 egiziani a processo

di Giovanni Ruggiero

La procura di Roma si prepara ora a chiedere il processo per i quattro esponenti dell’intelligence egiziana, accusati a vario titolo per il sequestro, la tortura e l’omicidio del ricercatore italiano ucciso in Egitto

Dalla procura di Roma sono partiti quattro avvisi di chiusura per le indagini dell’omicidio di Giulio Regeni diretti a quattro esponenti dei servizi segreti egiziani. Dopo la rottura di fatto con gli inquirenti del Cairo, la procura romana si prepara a chiedere il processo per Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Le accuse per loro a vario titolo sono di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate.


Chiesta l’archiviazione invece per un altro esponente dell’intelligence egiziana, Mahamoud Najem, per il quale non sono stati raccolti elementi sufficienti per ipotizzare un’accusa. In particolare nei confronti di Abdelal Sharif la procura di Roma comunica in una nota di aver ipotizzato l’accusa di concorso in lesioni personali aggravate, dopo l’introduzione del reato di tortura a luglio 2017, e di concorso in omicidio aggravato.


Dal sequestro alla morte. Gli ultimi giorni di Giulio

Le indagini del procuratore Michele Prestipino e del sostituto Sergio Colaiocco hanno ricostruito le dinamiche che avrebbero portato alla morte di Regeni. Tutto è nato dalla denuncia presentata agli uffici della National Security, il servizio segreto egiziano, da Said Mohamed Abdallah. Said era un rappresentante del sindacato dei venditori ambulanti con cui Regeni stava collaborando per portare avanti la sua ricerca. Dall’autunno 2015 fino al 25 gennaio 2016 i quattro agenti della National Security per cui è stato chiesto il processo avrebbero pedinato il ricercatore italiano fino a bloccarlo nella «metropolitana del Cairo». Da qui è cominciata la sua prigionia:

«Regeni venne condotto contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly dove venne privato della libertà personale per nove giorni».

Oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni. L’elenco degli strumenti che sarebbero stati usati per seviziare Regeni è lungo. Strumenti che avrebbero causato per «motivi abietti e futili e con crudeltà» la «perdità permanente di più organi». La descrizione dei traumi subiti lascia trasparire tutta l’efferatezza delle torture: «Numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico dorsale e degli arti inferiori; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti (calci o pugni e l’uso di strumenti personali di offesa, quali bastoni, mazze) e meccanismi di proiezione ripetuta del corpo contro superfici rigide ed anelastiche».

Secondo la procura di Roma, il nome dell’assassino di Regeni sarebbe quello del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Una certezza che nella ricostruzione degli inquirenti emergerrebe da diverse testimonianze: «Al fine di occultare la commissione dei delitti suindicati, abusando dei suoi poteri di pubblico ufficiale egiziano” Sharif “con sevizie e crudeltà, mediante una violenta azione contusiva, esercitata sui vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava imponenti lesioni di natura traumatica a Regeni da cui conseguiva una insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava a morte».

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