Tutti i segreti di ReiThera, il primo vaccino italiano. «Non abbiamo pensato ad altro per mesi» – L’intervista

di Valerio Berra

Il 5 gennaio sono stati presentati all’Istituto Spallanzani di Roma i risultati della Fase 1. Ora si procederà con il resto della sperimentazione. Stefania Capone, una delle ricercatrici che hanno lavorato al progetto, ci spiega che l’obiettivo è «arrivare con un farmaco efficace e sicuro entro l’inizio dell’estate»

Fase Uno. Sperimentazione umana avvenuta con successo: nessuna reazione avversa e attivazione del sistema immunitario. La corsa di ReiThera, il primo vaccino italiano contro il Coronavirus, è appena iniziata e ci vorranno ancora diversi mesi prima che si affianchi a colossi come Pfizer-Biontech. Eppure è lì, a giocarsi la partita più importante del 2021. L’azienda, che si trova alle porte di Roma, sta lavorando con l’Istituto Spallanzani per procedere con la sperimentazione. Una volta messo a punto il vaccino, ReiThera sarà in grado di produrre 100 milioni di dosi all’anno, come assicurato dalla sua presidentessa Antonella Folgori.


Il primo vaccino italiano si basa su una tecnologia diversa da quella messe a punto da Pfizer-Biontech, AstraZeneca o dai ricercatori che hanno brevettato il siero russo Sputnik. È una tecnologia che nasce dallo studio dei virus dei gorilla. A spiegare a Open come è nato e come potrebbe svilupparsi tutto questo progetto è Stefania Capone, la ricercatrice che si è occupata di gestire il laboratorio di immunologia di ReiThera in questo ultimo anno di lavoro.


ReiThera ha messo a punto il primo vaccino italiano. A che punto è la sperimentazione?

«Questo vaccino è stato creato a tempo di record. In agosto è iniziato il primo studio clinico con un centinaio di volontari e oggi sono stati comunicati i dati su questa fase. Le informazioni raccolte sono incoraggianti e in linea con gli altri vaccini, adesso si tratta di iniziare al più presto di Fase 2 e la Fase 3 in cui si dovrà allargare la platea dei volontari. Coinvolgerà migliaia, se non decine di migliaia di persone e dovremo inserire anche un gruppo placebo di controllo».

Cosa si intende per gruppo placebo?

«Per poter dimostrare l’efficacia di un farmaco e di un vaccino bisogna avere due gruppi: un gruppo di volontari che riceve il vaccino e un gruppo placebo. Il placebo non ha alcun effetto biologico. I sanitari e i pazienti non sanno cosa viene somministrato loro. In questo modo possiamo valutare se nel gruppo placebo ci sono state più infezioni di quello vaccinato».

Quanto dovremo aspettare prima di usarlo nella campagna vaccinale?

«I tempi dipendono da come andrà la sperimentazione clinica della Fase 2 e della Fase 3. Servirà anche l’approvazione da parte delle agenzie regolatorie. Noi immaginiamo che questi risultati e l’eventuale approvazione potrebbero arrivare tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. Sempre che nelle prossime fasi non emergano problemi».

Non c’è il rischio di arrivare troppo tardi?

«Tutti noi abbia sentito l’appello fatto da Pfizer: servono tanti vaccini efficaci per produrre sempre più dosi. Stiamo cercando di mettere al riparo il mondo dalla pandemia, è un obiettivo ambizioso e nessuna azienda può pensare di riuscirci da sola. Il nostro vaccino è un’arma in più da mettere a disposizione per l’Italia e per tutto il mondo».

Quali differenze ci sono tra il vaccino italiano e quelli già sviluppati da altre aziende?

«Quello italiano è un vaccino basato sulla tecnologia del vettore virale. Il vettore virale è un adenovirus, simile a quello di Oxford AstraZeneca o allo Sputnik Russo. Il nostro adenovirus non è di origine umana ma isolato dai gorilla. Il vantaggio è che questi adenovirus non circolano nella specie umana e quindi non esiste un’immunità preesistente che può comprometterne l’efficacia».

I vostri ricercatori hanno cominciato a lavorare al Coronavirus lo scorso febbraio. Cosa ha voluto dire lavorare al vaccino in uno dei Paesi più colpiti al mondo da questa pandemia?

«È stata un’esperienza totalizzante. Io vado a dormire pensando a questo e mi sveglio pensando a questo. C’è una pressione fortissima. C’è stato bisogno di incastrare tutto. Nessuno si è tirato indietro, dai manager alle persone che erano state appena assunte in azienda. Ognuno di noi ha iniziato questa carriera sperando di dare un contributo all’umanità sul piano della salute. E ora abbiamo un’occasione per trasformare in realtà questo sogno».

Il percorso di ricerca per arrivare al vaccino ha attraversato diverse tappe. Quali sono state quelle più importanti?

«Guardi, ogni tappa è stata eccezionale. Vedere i primi risultati nei topolini che avevano sviluppato gli anticorpi è stata una grandissima emozione. Ricordo anche il momento in cui abbiamo capito di essere sulla strada giusta: quando abbiamo visto sul vetrino di un microscopio la prima cellulla infettata dal nostro vaccino».

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