Usa, i colossi tech silenziano Trump (e i suoi fan): «Restrizioni arbitrarie che rischiano di aumentare l’odio»

di Riccardo Liberatore

Dopo la sospensione dell’account di Trump da parte di Twitter e Facebook, arriva la decisione di Amazon di mettere offline il social “sovranista” Parler. E se il risultato fosse un aumento della polarizzazione? Ne parliamo con Nadine Strossen e Philip Di Salvo

Dopo la decisione senza precedenti presa da Twitter e Facebook di sospendere permanentemente l’account di Donald Trump per «incitazione alla violenza», è iniziata la “migrazione” dai social media mainstream: scappa chi ritiene la sospensione un atto inaccettabile di censura, ma anche chi insegue la “propria” tribù in fuga. L’arrivo di Trump su Parler – il social media molto popolare tra i suoi supporter dove peraltro sono già presenti i figli Ivanka e Donald Jr. – era data per quasi certa prima che Google e Apple decidessero di rimuoverlo dal loro app store e Amazon facesse altrettanto dal proprio servizio di web hosting. Dopo l’assalto al Congresso Usa, mentre la diaspora del pensiero Maga è in atto, viene da chiedersi se la stretta delle piattaforme tecnologiche su siti e canali di ultra-destra rappresenterà uno spartiacque nel rapporto tra social media e politica.


Una fuga provvisoria?

In realtà ci sono alcuni motivi per pensare il contrario. Il primo è che fino a quando social come Facebook e Twitter continueranno ad essere mainstream, difficilmente politici che ambiscano a essere popolari potranno farne a meno. «Di certo gruppi estremisti di destra – che fanno parte dei sostenitori di Trump – hanno trovato terreno fertile in piattaforme alternative, spesso pensate ad hoc per gli appartenenti a questa area ideologica, complici anche policy molto all’acqua di rose persino nei confronti di contenuti violenti o peggio», ci dice Philip Di Salvo, ricercatore presso l’Istituto di media e giornalismo (Imeg) dell’Università della Svizzera italiana.


«Quello che è certo, però, è che Trump – e altri leader politici simili – hanno bisogno di presidiare le piattaforme digitali più mainstream per occupare costantemente il dibattito pubblico e generare perenne attenzione mediatica su di loro e la loro propaganda, cosa cui il giornalismo non sembra purtroppo mai smettere di prestare attenzione, fungendo da megafono». Se molti hanno apprezzato la scelta delle tech company di spegnere piattaforme ritenute fucine di estremisti da arginare, per alcuni il boicottaggio rischia di fare peggio. È di questo parere Nadine Strossen, attivista americana per i diritti civili e docente emerita alla New York Law school.

«La scelta di Apple, Google e Amazon di rimuovere alcune piattaforme alternative, tra cui Parler, è estremamente problematica – dichiara Strossen -, perché gli utenti dovrebbero avere un’ampia gamma di scelte disponibili in termini di standard di moderazione dei contenuti, e lo stesso vale per i personaggi pubblici. Quando queste aziende usano il loro enorme potere di mercato per mettere a tacere le voci non solo sulle proprie piattaforme, ma anche su altre, si presenta un problema particolarmente grave che richiede contromisure antitrust».

Cosa farà Biden? Nuove regolamentazioni in arrivo

Una nuova legge antitrust è stato uno dei temi ricorrenti nella campagna elettorale del presidente eletto Joe Biden. Si tratta di un argomento su cui i due contendenti per la Casa Bianca – per ragioni diverse – avevano una posizione in comune: i monopoli delle grandi compagnie tech vanno in qualche modo ridimensionati. Biden era stato più incisivo in questo senso, proponendo di introdurre una tassa federale per compagnie come Amazon, simile a quella richiesta dalla Commissione europea.

Ma la regolamentazione del dibattito pubblico è un’altra cosa ancora. Paradossalmente, visto il ruolo che la disinformazione e la diffusione di contenuti divisivi (nonché l’interferenza da parte di potenze straniere, in primis la Russia) hanno avuto nell’ascesa politica di Trump, anche su questo i due si trovavano d’accordo. Infatti, Biden è stato l’unico candidato democratico ad appoggiare come Trump la revoca della Sezione 230 del Communications Decency Act, una legge federale che esenta le piattaforme online dalla responsabilità legale per il materiale pubblicato dai loro utenti.

Per Strossen si tratterebbe di un grandissimo errore, che finirebbe per «aumentare gli incentivi delle piattaforme a limitare ancora di più la libertà d’espressione» per evitare di incappare in guai giudiziari, oltre a «rafforzare ulteriormente le società già dominanti». Proprio come nel caso della stretta su Parler. «Tuttavia – continua Strossen – non vi è alcuna barriera legale al potere del Congresso di abrogare la sezione 230 (o di rivederla sostanzialmente)». Per la docente, visto che molti membri repubblicani del Congresso sono favorevoli, è probabile che nei prossimi anni «molte forme di regolamentazione verranno dibattute». Trump dopotutto aveva già emesso un ordine esecutivo in merito e diverse indagini e azioni legali antitrust sono in corso da parte del Dipartimento di Giustizia, della Federal Trade Commission e di molti procuratori generali.

Bye-bye odiatori online? Non proprio

Meno chiaro invece è se tutto ciò avrà l’effetto sperato. Strossen – che ha scritto un libro dal titolo rivelatore, Hate: Why We Should Resist it With Free Speech, Not Censorship -, crede che introdurre restrizioni, come è accaduto negli scorsi giorni, potrebbe sortire l’effetto opposto, alimentando rabbia e risentimento tra odiatori e affini che si sentono censurati, e privando al tempo stesso i cittadini della possibilità di accedere a (ed eventualmente contestare) ciò che viene detto dai «detentori del potere pubblico». Inoltre, è utopistico pensare di poter restringere il dibattito online in modo non arbitrario, sostiene Strossen, se non in contesti emergenziali. Meglio contrastare l’odio tramite strategie di comunicazione su misura che – come aveva provato a fare il think tank di Google per la privacy e la sicurezza, Jigsaw – reindirizzino l’utente che consuma contenuti violenti o intrisi d’odio verso canali che propongono una contro narrazione.

C’è naturalmente anche un limite a quello che può fare l’autorità pubblica, come viene regolarmente obiettato a chi definisce la sospensione di Trump un «atto di censura». Si tratta dopotutto di aziende private dotate di proprie regole in base alle quali gestiscono la loro community. Nel caso di Trump hanno applicato i termini di servizio e le sanzioni previste per tutti gli utenti in materia di violenza. È loro discrezione farlo: l’autonomia che la Costituzione americana garantisce alle aziende private è considerevole. «Senza abrogare il primo emendamento della Costituzione, che garantisce la libertà di espressione, il governo non può costringere le piattaforme a rimuovere contenuti che incitano all’odio o forme di disinformazione», conclude Strossen. Difficile immaginare che l’amministrazione Biden possa arrivare a tanto.

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