Bielorussia, 160 giorni di proteste tra arresti e torture. La giornalista Liubakova: «L’Ue non può restare a guardare, deve agire ora» – L’intervista

«Le persone hanno capito che se proteggono i giornalisti, è poi il giornalismo a proteggere loro. Sanno che è una delle forze trainanti delle proteste». La reporter Hanna Liubakova parla a Open della brutalità della polizia e della repressione violenta di Lukashenko

Nel gelido inverno di Minsk, mentre la neve scende sulle strade della capitale, le proteste contro il risultato dell’elezione e il regime di Aleksandr Lukashenko sono arrivate al loro 160esimo giorno. E in questi mesi sono migliaia le persone scomparse, detenute arbitrariamente nelle carceri del governo. Al prolungarsi delle proteste, il presidente bielorusso ha risposto con una repressione sempre più brutale e violenta, come quella usata contro Raman Bandarenka, il manifestante di 31 anni picchiato a morte dalle forze di polizia bielorusse dopo essere stato prelevato dal cortile della sua abitazione per aver esposto una bandiera bianca e rossa pro-democrazia. «Il livello di violenza è folle, ma ce lo aspettavamo».


A parlare a Open è Hanna Liubakova, giornalista indipendente bielorussa e ricercatrice dell’Atlantic Council che domani – domenica 17 gennaio – sarà anche ospite del festival di Internazionale per l’edizione straordinaria «Europa e disuguaglianze».


Liubakova, lei ha detto che vi aspettavate questa violenza. Perché?

«Nei mesi che hanno preceduto l’elezione c’erano stati diversi segnali. Poco prima del voto Lukashenko ha fatto riferimento al massacro del 2005 ad Andijan, in Uzbekistan, quando la polizia sparò sulla folla uccidendo almeno 187 persone. Lukashenko ci aveva in qualche modo avvertito che la sua risposta sarebbe stata ancora più dura. Avevamo tutti paura, per mesi abbiamo vissuto in un clima di terrore, e fin dal primo giorno si è visto che Lukashenko avrebbe mantenuto le sue promesse».

Cosa è successo?

«Il 9 agosto, il giorno dell’elezione, mi trovavo con alcuni colleghi giornalisti in un appartamento affittato nel centro di Minsk per seguire il voto. Le strade erano piene di veicoli blindati, militari e la polizia aveva circondato il palazzo presidenziale. Avevamo subito intuito che la risposta di Lukashenko sarebbe stata violenta e quello che abbiamo visto fino ad oggi è uno dei più duri livelli di repressione che siano avvenuti in Europa da decenni. E Lukashenko non ha intenzione di fermarsi. In questi giorni è stato fatto trapelare un video in cui si sentono le autorità suggerire di costruire dei veri e propri campi di detenzione per i manifestanti dove rinchiuderli e farli lavorare fino a quando la situazione non si sarà “calmata»”.

Sono più di cinque mesi ormai che le proteste vanno avanti. Per quanto tempo pensa che i cittadini resteranno in piazza?

«Se perdono l’iniziativa è finita. La popolazione avverte che deve continuare a combattere perché se si fermerà ci sarà una reazione perfino più volenta da parte delle autorità. Più tempo le persone rimangono in strada, più possono mostrare a Lukashenko, e al mondo, che non è finita. Ovviamente c’è ancora tanta paura, e i cittadini sono disgustati dalle azioni di Lukashenko. Ma non c’è altro da fare, vogliono che se ne vada».

Ha detto che la violenza della polizia ha raggiunto livelli «folli». Fin dove pensa sia disposta a spingersi?

«L’unica cosa che possono fare, e che faranno, è essere ancora più duri nei confronti della popolazione. E ce lo aspettiamo tutti. Aumentare la repressione, e fare affidamento sulle forze di sicurezza, è l’unico modo che ha Lukashenko per rimanere al potere. Per questo si sta assicurando che la polizia gli rimanga fedele e infatti nessun caso è stato aperto contro di loro per eccesso di violenza, torture e abusi».

C’è poi anche il ruolo di Vladimir Putin. Ha supportato Lukashenko dall’inizio, per quanto continuerà?

«Il rapporto tra il presidente russo e Lukashenko non è cosi semplice come sembra. Da una parte è chiaro che per Putin non è di beneficio continuare a sostenerlo, ma dall’altra parte arrivati a questo punto non si può tornare indietro. Putin non può permettere alla popolazione di vincere, perché il successo bielorusso sarebbe un esempio anche per i cittadini russi».

La leader dell’opposizione, Svetlana Tsikhanouskaya, sta facendo molti viaggi in Europa nelle ultime settimane. C’è l’aspettativa che Bruxelles possa fare qualcosa di più?

«L’Unione Europea è una di quella organizzazioni internazionali a cui i bielorussi guardano in cerca di aiuto. Sono esausti e usano ogni strumento che hanno a disposizione per uscire da questa situazione, che altro possono fare? Se l’Europa si dimentica della Bielorussia allora dimentica anche i suoi valori. Se Bruxelles continua a lasciare che vengano violati diritti ai suoi confini c’è da chiedersi molto su sullo stato dell’Europa. Ogni giorno che passa aumenta la probabilità di avere più vittime e più violenza. Questo è il momento per agire e non si può aspettare perché sempre più bielorussi stanno guardando all’Europa per avere risposte e giustizia. Più l’Europa aspetta, più i bielorussi si gireranno verso la Russia. I bielorussi stanno dicendo all’Europa che si sentono europei e che vogliono far parte della famiglia europea».

Anche molti giornalisti sono stati detenuti, e lo sono ancora. Nelle ultime settimane si è spesa molto per Ihar Losik

«Sì. È un blogger molto influente in Bielorussia. È anche un amico e un collega. Si trova in prigione da giugno, quindi da prima dell’elezione. È stato arrestato dopo aver pubblicato diversi articoli sulla malagestione della pandemia e la grave crisi economica. Da un mese, però, ha deciso di iniziare uno sciopero della fame e siamo tutti molto preoccupati. Di lui non sappiamo più niente, non conosciamo le sue condizioni. Sua moglie gli ha chiesto di interrompere lo sciopero, ma non lo farà, non vuole arrendersi. Lukashenko l’ha incarcerato semplicemente perché ha paura di lui, come di tutte le persone che provano a dire la verità».

In questa situazione quali sono i rischi che corre una giornalista come lei?

«Quando si parla di libertà di stampa, quello che sta accadendo in Bielorussia è una delle peggiori situazioni della nostra storia contemporanea. Tutti i giornalisti, specialmente quelli indipendenti, temono per la loro sicurezza e chiunque può essere arrestato, detenuto e picchiato. È successo anche a due mie colleghe che si sono occupate della morte di Bandarenka. Possono decidere di arrestarti da un giorno all’altro. Ma in questo clima di terrore, ci sono però degli aspetti positivi».

Quali?

«Non c’è competizione tra le redazioni e, a differenza di quanto succede in Europa e nel resto del mondo, le persone non hanno perso fiducia nei media. Anzi, ci sostengono. Se stiamo seguendo una protesta ci proteggono così che la polizia non possa arrestarci; ci aprono le porte delle loro case così che possiamo usare il loro wi-fi quando i nostri vengono disattivati. Le persone hanno capito che se proteggono i giornalisti, è poi il giornalismo a proteggere loro. Sanno che è una delle forze trainanti di queste proteste».

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