Centomila morti per il Covid. Il ricordo da Bergamo: «Le notti in auto e il funerale al cellulare. Così ho perso tre cari senza dirgli addio»

Le vittime del Coronavirus se ne sono andate senza i loro cari vicino. Paolo Casiraghi, membro del Comitato Noi Denunceremo, racconta a Open il dolore di chi resta

La telefonata arriva la domenica di Pasqua. Paolo è a casa sua, a Osio Sotto. Dall’altro lato della cornetta c’è qualcuno dell’ospedale di Vimercate, nella provincia di Monza-Brianza, dove è ricoverato suo padre Gabriele, di 81 anni. Lo hanno portato lì per alcuni problemi ai polmoni. «Suo padre ha la febbre», gli dice la voce. Paolo resta muto un istante. Non vuole crederci. È il 12 aprile 2020. Solo qualche giorno prima erano arrivati i risultati dei due tamponi fatti in ospedale, entrambi negativi. «Non può essere ancora Covid», pensa. «Non può». Tra la metà di marzo e i primi giorni di aprile, sua moglie Monica aveva già perso entrambi i genitori a causa del Coronavirus: la signora Eudilia, detta Edy, di 73 anni, e suo marito, il signor Luciano, che di anni ne aveva 77. L’ultima volta che li avevano visti erano stesi sul lettino di un’ambulanza, una delle tante che in quella primavera correvano sulle strade tra la Val Seriana, la bassa Bergamasca e il Lodigiano.


Quella strana domanda degli infermieri

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Invece sì, è Covid anche stavolta. Al telefono con l’ospedale, a Paolo tornano in mente quelle strane parole che gli infermieri del 118 avevano detto a lui e a sua moglie la sera in cui portarono via il signor Luciano. «Signori – gli avevano chiesto – ma voi siete proprio sicuri di volerlo ricoverare?». Erano giorni confusi e frenetici: una domanda del genere, dopo 20 notti di viaggi in farmacia, febbri alte e bombole di ossigeno, non aveva ai loro occhi alcun senso. «Solo alla fine di tutto abbiamo capito che cosa intendessero dirci», racconta oggi Paolo, a distanza di un anno da quel periodo. «Gli infermieri sapevano in che condizioni erano gli ospedali. Sapevano anche che probabilmente non li avremmo rivisti più, che quella sarebbe potuta essere la nostra ultima volta. E così è stato». Il signor Luciano, la signora Edy e il signor Gabriele se ne sono andati uno dopo l’altro. Gabriele si è spento per ultimo, il 25 aprile.


Un anno dopo

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Bergamo. Una delle prime città europee devastate dal Coronavirus, quella che il 19 marzo scorso ha visto sfilare per le sue strade i mezzi militari carichi di bare. Paolo (che di cognome fa Casiraghi) e Monica oggi fanno parte del Comitato Noi Denunceremo, l’insieme di famiglie della provincia lombarda e dei dintorni riunitesi per chiedere giustizia per i loro defunti. Persone che combattono, anche per vie legali, per le persone che non hanno potuto stringere le mani dei loro cari durante la malattia, che non li hanno avuti accanto nei loro ultimi momenti di vita. Una sorte che ha accomunato le 100.103 vittime legate al Covid-19 che l’Italia ha registrato in un solo anno. Una cifra inconcepibile, che ha una sua dimensione ancora più tragica nelle storie di solitudine di chi è rimasto.

«Il funerale di mio suocero lo abbiamo visto sul cellulare», racconta Paolo. «Un assessore comunale ci ha fatto il piacere di registrare la funzione e di mandarci il video». Paolo ricorda che, quando il signor Luciano venne portato via, lui e suo figlio Christian lo seguirono fino al Pronto Soccorso, rimanendo in attesa fino all’una di notte per avere notizie. I medici gli dissero che avevano fatto il tampone, ma che ora potevano anche andare a casa: i risultati non sarebbero arrivati prima di 24 o 48 ore. I test rapidi, allora, non erano nemmeno nelle loro fantasie.

ANSA / MATTEO BAZZI | Don Mario Carminati celebra un rito in una chiesa vicino Bergamo.

Quando anche la signora Edy si ammalò, Paolo e Monica cercarono in tutti i modi di rimandare il ricovero. «Dormivamo in macchina fuori casa sua, per non stare dentro e farle comunque un controllo ogni due ore», ricorda lui. «Non sapevamo nulla, non avevamo mascherine. Avevamo paura anche di stare all’aria aperta». Poi, a un certo punto, la signora Edy peggiora. «Ricordo chiaramente che ci disse: “Non ce la faccio più, chiamate un’ambulanza per favore”». Quando arrivarono, gli infermieri del Pronto soccorso gli fecero la stessa domanda dell’altra volta. Erano le 9:30 del mattino. Alzando gli occhi, Paolo vide tutto il vicinato sporgersi dai balconi. Nella silenziosa confusione del momento, avvertì sua moglie Monica rientrare di corsa dal lavoro. La vide salutare per l’ultima volta sua mamma, prima che l’ambulanza la portasse via con sé.

«Portami delle caramelle»

Nei giorni in cui sia la signora Edy che il signor Luciano erano ricoverati (lui al Policlinico San Marco, lei all’Ospedale di Vimercate), il numero verde per i parenti non era ancora stato attivato. «Non si poteva entrare, non si poteva chiamare», ricorda Paolo. «Dovevi solo aspettare la telefonata dall’ospedale, che non arrivava mai alla stessa ora: passavamo le giornate con il telefono vicino, giorno e notte, aspettando che squillasse». Qualche giorno dopo che il signor Luciano morì, la signora Edy, che non sapeva nulla del marito, chiese un favore a Paolo. «Portami delle caramelle», gli disse al telefono. «Io ho fatto di tutto», racconta lui. «Ho chiamato anche la Protezione civile per fargliele recapitare». La mattina dopo, le caramelle erano arrivate in ospedale. Lei, però, non c’era più.

A distanza di un anno, il dolore sembra non volersene andare. Paolo cerca di tenersi occupato con il lavoro, che lo manda spesso su e giù per l’Italia. «Se devo piangere», dice, «mi fermo un attimo e piango da solo». Non vuole pesare ulteriormente sulla sua famiglia, insiste. Tutte le loro attenzioni ora sono su sua mamma, la vedova del signor Gabriele, che la scorsa settimana ha ricevuto la prima dose del vaccino Pfizer. «Per lei è scattata la protezione massima», dice al telefono. Gli scappa una piccola risata. Nonostante tutto, ci sono ancora molti motivi per cui bisogna tenere duro.

Immagine di copertina: ANSA/FILIPPO VENEZIA

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