Mascherine cinesi Ffp2 non a norma, imprenditore italiano: «Perseguire duramente i delinquenti, ma non chi lavora responsabilmente» – L’intervista

Le mascherine Ffp2 contraffatte sono ovunque e bisogna tenere sempre alta l’attenzione. C’è chi, come Davide Cutrupi della DC Healthcare, preferisce l’arma della trasparenza per tutelare gli imprenditori responsabili

Il nuovo Coronavirus ci ha colti tutti alla sprovvista e la corsa ai ripari, come sappiamo, è stata piena di insidie e ostacoli. In merito al tema delle protezioni individuali, in particolare quello delle mascherine, molte sono state le mosse per velocizzare la loro distribuzione e qualcuno potrebbe aver fatto il furbo. Nel corso del 2020 abbiamo assistito a diversi sequestri, denunce per truffa e indagini contro negozianti, distributori, produttori e persino nei confronti del commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri.


A Open avevamo parlato dei dubbi sollevati in merito a delle mascherine cinesi con il marchio CE 2163, riportando sia le accuse che le difese, e invitando le autorità a svolgere un maggior controllo nel mercato vista l’emergenza sanitaria in corso. Ma c’è un ulteriore soggetto che non è stato ancora pienamente ascoltato: chi in Italia vende mascherine certificate proprio con quel marchio. Come Davide Cutrupi della DC Healthcare che a ha fornito a Open le analisi condotte sui suoi prodotti.


Cutrupi, la situazione è molto delicata, lo stiamo vedendo con il recente maxi-sequestro di mascherine cinesi. Se ci pensiamo, qualcuno potrebbe essere stato contagiato utilizzando mascherine non a norma e i fornitori potrebbero essere accusati per il semplice fatto di averle fornite. Insomma, rischiate di essere accusati per un danno creato in realtà da altri.

«Ha colto perfettamente il punto. Chi fa volontariamente certe “porcate” per profitto, ben sapendo di commercializzare dei prodotti non a norma, andrebbe perseguito penalmente e senza sconti. Questi soggetti mettono a rischio la salute delle persone, alcune potrebbero essere morte a causa loro. Tornando al caso relativo al marchio CE 2163, quando si fanno delle indagini e si tirano in ballo anche indirettamente molte aziende serie è chiaro che anche dall’altro lato ci devono essere delle responsabilità. Se non ci sono delle certezze assolute sulla non conformità è chiaro che chi ci ha messo i soldi, l’immagine e la professionalità debba chiedere il giusto risarcimento. Chi sbaglia deve pagare, chi fa bene non può permettersi di subire un attacco. Altrimenti mi conveniva fare come altri, prendere delle mascherine a basso costo e non sicure, guadagnarci e poi sparire con i soldi».

Voi siete produttori di mascherine Fpp2?

«Noi risultiamo essere produttori, nel senso che facciamo la lavorazione per conto terzi all’estero. Ci appoggiamo alla Samding Craftwork con la quale ci troviamo molto bene».

Da quanti anni collaborate con questa società?

«Dall’inizio della pandemia, da marzo dell’anno scorso. Siamo nati come DC Communication Srl dieci anni fa e facevamo anche gadget tessili, avendo la fortuna di avere già dei rapporti stretti con la Cina abbiamo avuto delle corsie preferenziali per ottenere delle mascherine certificate e fornirle nel nostro territorio».

Visti i fatti di cronaca riguardo i prodotti provenienti dalla Cina, tra sequestri e indagini svolte un po’ in tutta Italia, vi siete fidati ciecamente di questa società produttrice di mascherine?

«Non volevamo correre rischi, l’investimento era davvero importante. Abbiamo aspettato due mesi prima di immetterle sul mercato, il tempo necessario per effettuare dei test sui prodotti nei nostri laboratori e da un ente certificato. Solo dopo le abbiamo fatte produrre».

In redazione è arrivato un video che ti sottoponiamo. Si vede una mascherina con stampato il certificato CE 2163 che però presenta, secondo l’autrice del video, molte anomalie. Potrebbe trattarsi di una delle mascherine falsificate che utilizzano il certificato in questione.

«Questa mascherina, a quanto si vede dal video, non risulta seguire le normative previste. Non risulta esservi il nome del produttore, il logo CE nella confezione deve essere seguito dal numero che identifica l’ente certificatore e non da un generico Ffp2. Questa mascherina, così come si presenta, non può essere immessa sul mercato, dovrebbe essere bloccata in dogana. Siamo di fronte a una contraffazione piuttosto palese a mio modo di vedere, non l’acquisterei e la segnalerei alle autorità».

Parliamo del caso relativo alle mascherine certificate CE 2163, fornite da una società turca che è finita in qualche modo sotto la lente d’ingrandimento sia in Germania che in Italia per la velocità nel fornire le certificazioni e a seguito di alcuni test su delle mascherine risultate non a norma. Il caso italiano era partito proprio da una società altoaltesina, poco distante dalla vostra realtà.

«Il Corriere aveva ripreso la storia da un altro quotidiano altoaltesino, il Dolomiten in lingua tedesca, che aveva dato spazio all’imprenditore Robert Marchio della Shangai to Milan (StM) che aveva denunciato questo caso sulle Ffp2 marchiate CE 2163. Ho provato personalmente a sentire questa azienda, ottenendo come risposta che avrebbero fatto dei test a 20 prodotti. Abbiamo richiesto cortesemente di visionare questi test report, ma non hanno fornito nessun tipo di dato e ci hanno semplicemente detto che sarebbe in corso un’indagine. Non si sa bene di quale Procura, non c’è nessun esposto, non è stato fornito nessun tipo supporto oggettivo alle loro affermazioni. Noi, vivendo in un territorio piccolo, abbiamo direttamente subito gli effetti di queste dichiarazioni diffuse sulle testate giornalistiche fino ad arrivare a Rete4 dove Mario Giordano ha definito “assassini” i produttori delle mascherine marchiate CE 2163».

Che cosa ha comportato?

«Un crollo di vendite e clienti che hanno rescisso i contratti, rivolgendosi alla concorrenza. Stiamo cercando di salvare il grosso, ma non sarà facile. Purtroppo abbiamo subito direttamente il danno da parte di queste affermazioni non provate perché, fino a prova contraria, noi il 26 marzo abbiamo svolto un test report dall’ente certificato Dolomiticert che abbiamo fornito a tutti i quotidiani dimostrando la bontà del prodotto e quella del certificato della Universalcert. Noi siamo ancora in attesa che i test report della Shangai to Milan dell’imprenditore Robert Marchio di Bolzano siano quantomeno visionabili. Il direttore di Dolomiten ci ha risposto che si fida ciecamente di questa azienda, ma che non avrebbe avuto la possibilità di visionarli».

Alcuni dei test report sono stati inoltrati a Open e posso dirle che uno di questi è stato rilasciato da una società cinese che fa parte del CNAS (China National Accreditation Service for Conformity Assessment) come laboratorio accreditato per questo tipo di analisi. La Shangai to Milan aveva fornito successivamente l’elenco dei produttori delle mascherine, pubblicato dal Corriere.

«Le pongo una questione. Come mai si è deciso di perseguire un ente come il 2163 e non tutti? Perché in altri casi si parla di contraffazione e non di un ente specifico, come in questo caso».

La questione era molto legata alla velocità dell’ente turco e dei test effettuati in subappalto in Cina. Poi ovviamente, come abbiamo riportato su Open, non è detto che la questione sia legata all’azienda turca. Per questo motivo avevamo contattato un’azienda italiana di Milano che collaborava direttamente con la Universalcert per avere un parere in merito alla vicenda, ottenendo come risposta il problema della contraffazione. Infatti, essendo il marchio CE 2163 largamente rilasciato, è soggetto a numerose contraffazioni da parte di truffatori. Vista la situazione molto variegata, a Open avevamo auspicato maggiori controlli sulle mascherine perché qualunque imprenditore italiano, in buona fede, potrebbe aver ordinato delle mascherine dalla Cina per poi ritrovarsi materiale contraffatto

«Da quello che ho visto insieme ai legali, e non parlo di lei o dell’articolo di Open, ci sono stati alcuni giornalisti che sono intervenuti dicendo di non comprare le mascherine CE 2163. Cioè, si può immaginare cosa vuol dire questo! Le persone che leggono i loro articoli non si fidano più e smettono di comprare le nostre mascherine. Le posso garantire che quasi ogni giorno ricevevamo una decina di email da clienti e curiosi in cui ci venivano chieste delucidazioni. Noi abbiamo fornito tutto a tutti, non avevamo niente da nascondere, il problema è che poi non se le compravano. Si parla di 20 presunte aziende coinvolte, ma ce ne sono tante altre che non hanno nulla a che fare con questa storia e stanno subendo dei danni. Molte aziende, come la nostra, si sono riconvertite per fornire le mascherine in questo periodo emergenziale investendo centinaia di migliaia di euro per poi finire ingiustamente nel tritacarne. I media hanno tenuto conto dell’effetto che poteva creare questa storia citando solo il marchio CE 2163?»

La questione era inizialmente legata all’ente turco e alla celerità della certificazione, tema sollevato anche all’estero, ma come abbiamo detto non tutte le mascherine aventi quel marchio sono coinvolte. Sarebbe stata utile da parte di ogni azienda la pubblicazione sul proprio sito del risultato dei test, per garantire la regolarità del prodotto.

«Certo. Noi abbiamo mandato il test non solo alle testate giornalistiche, ma anche a tutti i nostri clienti per rassicurarli. Certamente ci sono dei problemi legati alla contraffazione, ma bisogna dire che il test report precedente sulle nostre mascherine effettuato dalla Universalcert era corretto».

Non metto in dubbio i test effettuati sulle vostre mascherine, la questione è molto più larga e non riguarda solo l’ente turco. C’è una situazione in cui, di fronte all’emergenza sanitaria, qualcuno cerca di fare il furbo e qualcun altro viene colpito ingiustamente.

«Prima di tutto noi abbiamo bisogno di comunicarlo a livello nazionale. Sul nostro sito e attraverso le nostre comunicazioni possiamo farlo sapere a un numero ristretto di persone, ma non avremo mai la stessa portata di una testata giornalistica nazionale. Non voglio che sia fatto un attacco nazionale e poi ritrovo un chiarimento in un sito locale».

Proprio questa è la ragione di questa intervista. Voi ci avete fornito un documento, un test report che garantisce la regolarità delle vostre mascherine e sarebbe opportuno che ogni società che commercializza queste mascherine marchiate CE 2163 facesse lo stesso e pubblicasse i risultati sul proprio sito.

«Non so come vorranno muoversi le altre società. So che alcune si stanno muovendo per avviare una class action nei confronti dei media che ne hanno parlato, ma io non sono di questa opinione. Ritengo che sia più importante far passare un messaggio all’opinione pubblica che i nostri prodotti siano in regola, ovviamente dimostrandolo, così da poter fornire le mascherine e tutelare la salute di tutti a fronte di un’emergenza sanitaria senza precedenti».

Il tema era esploso ed è tutt’ora molto sentito da parte dell’opinione pubblica. Open ha cercato di spiegare che non bisognava considerare tutte le realtà aventi a che fare con il marchio CE 2163, altrimenti sarebbe stato un attacco unilaterale. La questione era molto più complessa su diversi fronti.

«Un problema che non riguarda solo il marchio CE 2163. Ci sono molte altre realtà che non sono state attenzionate come quella dell’ente turco. Non so quali siano i reali numeri del fenomeno, ma sono sicuro che se andiamo a fare dei controlli su altri marchi CE troveremo altre mascherine non a norma. Mettiamo caso che qualcuno voglia contraffare una mascherina Ffp2 applicando un certificato CE qualsiasi. Ci rimetterebbero tutti coloro che lo hanno ricevuto. Perché ci devo rimettere io o un’altra azienda onesta che ha investito nel progetto? Come lo spieghiamo ai nostri clienti? Perché agli altri non viene rivolta la stessa attenzione?».

Ritiene che sia strana questa particolare attenzione verso quello specifico marchio CE?

«Questa storia, secondo me, è molto strana. Più che un’indagine mi sembra una mossa commerciale, ma ci saranno poi le opportune autorità che accerteranno la situazione. Con i giornali siamo sempre in ottimi rapporti, La Nazione ci ha pubblicato un’intervista e con Angelucci del Corriere ci siamo sentiti, apprezzo tantissimo il vostro lavoro e ritengo giusta l’indagine che avete fatto. Su StM, invece, valuteremo con i nostri legali se sarà il caso di procedere o meno. Il sospetto che si sia sviluppata una concorrenza sleale e una mossa commerciale è forte».

A lei non verrebbe il dubbio che ci possano essere delle mascherine non a norma marchiate CE 2163?

«Non ho il dubbio, ho la certezza che come il 2163 e altri della Nando list ci saranno tantissime mascherine contraffatte. Questo non giustifica l’attacco mediatico che è stato messo in atto con astuzia da StM, e da chi ne ha parlato a livello mediatico».

Proprio per il problema legato alle contraffazioni servirebbero maggiori controlli.

«C’è un problema: non c’è omogeneità e costanza nei controlli. Ci sono dei periodi in cui vanno da tutti e altri dove lasciano fare tutto a tutti. Mentre a noi hanno fatto le pulci anche in dogana, dove ho visto prodotti giunti durante la prima fase dell’emergenza sanitaria che sono stati controllati solo di recente e ritirati dal mercato, ma ormai il danno è fatto».

In merito ai dubbi su StM, ricordo che anche l’azienda milanese che operava con Universalcert valutava la possibilità di una «manovra di screditamento commerciale» e che le mascherine incriminate potessero essere quelle contraffatte. Proprio su questo punto la società milanese mi aveva scritto che solo nell’ultimo mese avevano «3 denunce di contraffazione».

«Di contraffazione, esattamente. Quella è la parola più corretta da utilizzare».

«Se loro hanno certificato attraverso l’ente turco delle mascherine, non è detto che successivamente arrivino dei prodotti contraffatti da chicchessia. E non è possibile accusare Universalcert. O, ancora, potrebbero esserci dei problemi per qualche lotto: tutto può essere.

«Non è colpa di Universalcert. Ho parlato con la società turca dopo l’articolo del Dolomiten, valutando tutte le possibilità. Loro ritengono di essersi mossi in maniera corretta, ma dicono che non potevano escludere il fatto che qualcuno avesse fatto delle porcherie».

Non è possibile fare dei controlli post certificazione.

«Esattamente. Andrebbe perseguito il produttore che fornisce 30 campioni per la certificazione e immette nel mercato un prodotto diverso. Per questo motivo sto facendo una lotta affinché non si indaghi sull’ente certificatore, ma sui produttori! Le autorità dovrebbero controllare su quelli più segnalati, se no si rischia di colpire uno colpendo tantissimi innocenti».

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