Caso Grillo, perché il silenzio di Bonafede fa sempre più rumore

L’intervento del fondatore del M5s a difesa del figlio chiama direttamente in causa l’ex ministro. Perché calpesta il “suo” Codice Rosso e manda un messaggio di sfiducia nei confronti dell’intero sistema giudiziario

Fin dalle primissime ore dalla sua pubblicazione, il video di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro ha innescato tanti appelli affinché componenti più o meno di spicco del Movimento 5 stelle si esponessero, prendessero le distanze da quelle parole che sconfinavano ben oltre il dolore di un padre, impregnate com’erano di un maschilismo e di un garantismo di convenienza che non tutti sono stati in grado di condannare. È stato chiesto alle donne del Movimento di schierarsi contro il Garante, e alcune – si veda la deputata Federica Daga – lo hanno fatto. È stata invocata una presa di posizione da parte di Giuseppe Conte, che si è smarcato con una esemplare dimostrazione di cerchiobottismo. Hanno parlato ex illustri e un membro del gruppo dirigente del M5s come Giancarlo Cancelleri, primo a scaricare Grillo. Continuano invece a tacere i big del Movimento, incluso – nonostante sia titolato più di altri, almeno sulla carta, a intervenire sul tema – l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.


Il Codice Rosso calpestato da Grillo

Perché Bonafede tace? Perché, a più di una settimana da quel video, l’uomo che è stato ministro della Giustizia per gran parte del periodo in cui si sono svolte le indagini su Ciro Grillo per presunta violenza sessuale non ha ritenuto opportuno prendere una posizione? Presa di posizione che, vista la materia, sarebbe non solo auspicabile, ma doverosa. Innanzitutto, perché il video di Beppe Grillo ha dato in pasto a milioni di italiani una versione – e una visione – distorta di un principio giudiziario cardine com’è quello della querela. La ragazza, vittima della presunta violenza sessuale subita da Ciro Grillo e da altri tre ragazzi, ha «denunciato otto giorni dopo», e tanto basta secondo il Garante del M5s a dimostrare che «non è vero niente, non c’è stato niente». Non è così, evidentemente, una violenza sessuale porta con sé un processo di metabolizzazione per la vittima che non segue regole precostituite, e non è un caso se i tempi per sporgere querela sono stati recentemente estesi a 12 mesi. In tanti l’hanno fatto notare a Grillo, non Bonafede.


Eppure è stato proprio il deputato pentastellato, da ministro della Giustizia, a mettere il timbro (e il cappello) sul provvedimento che ha allungato da sei mesi a un anno i tempi utili per sporgere querela, e che più in generale interviene a tutela delle donne e dei soggetti deboli che subiscono violenze. Solo nel novembre scorso, della legge n. 69/2019, meglio nota come “Codice Rosso”, Bonafede non mancava – a ragione – di sottolineare il contributo decisivo nel contrasto ai reati a sfondo sessuale. Sei mesi dopo, l’ex Guardasigilli sta perdendo un’occasione per difendere una legge che, fino a prova contraria, reca il suo nome come ministro proponente. E che Grillo, con quel video, ha calpestato nella forma e nei principi.

I dubbi della sottosegretaria Macina sono quelli di Bonafede?

Quel provvedimento, il Codice Rosso, peraltro fu voluto anche dalla ministra per la Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, senatrice della Lega e rappresentante della ragazza nel procedimento contro Ciro Grillo e compagni. Nei giorni scorsi, Bongiorno è stata attaccata da Anna Macina, deputata che – da sottosegretaria alla Giustizia – ha ricevuto il testimone da Bonafede quale rappresentante pentastellata ai piani alti del dicastero di via Arenula, ora guidato dalla ministra Marta Cartabia. Macina ha gettato ombre sul caso Ciro Grillo, dicendo che «non si capisce se Bongiorno parla da difensore o da senatrice che passa informazioni al suo capo di partito (Matteo Salvini, ndr) di cui è anche difensore» per i casi Gregoretti e Open Arms.

Macina ha poi ritrattato, ma i dubbi su un caso giudiziario a sfondo politico sussurrati e poi rimangiati rappresentavano una visione personale mal formulata o erano – e sono – condivisi dai vertici del Movimento, e in particolare dall’ex titolare di via Arenula? Esponenti pentastellati come Daniela Donno ed Eugenio Saitta hanno parlato di dubbi legittimi. Sono tali anche per Bonafede? Vietato saperlo.

Quello di Grillo è un attacco (anche) all’ex ministro

E poi c’è la questione della lunghezza dell’inchiesta a carico di Ciro Grillo e degli altri ragazzi. Anche questo elemento, come i tempi della querela da parte della ragazza, è stato citato nel video da Grillo quasi come prova della non colpevolezza del figlio e degli altri indagati. «Sono liberi da due anni», ha detto Grillo. «Allora perché non li avete arrestati?». Una risposta, spiega il Corriere della Sera, hanno provato a darla gli avvocati degli inquisiti: in questi due anni «sono state chieste proroghe, c’è voluto l’incarico a un consulente per trasferire sui dischetti le carte che chiedevano, sono slittati gli interrogatori dei ragazzi per impedimenti degli stessi legali». Ma perché la stessa risposta non l’ha data immediatamente Bonafede, che da ex ministro dovrebbe avere familiarità con funzionamento e peculiarità della giustizia in Italia, specie negli anni di sua competenza?

Oltre al tentativo di screditare le accuse a carico di Ciro, la strategia messa in campo da Grillo – inclusa l’intenzione di ricorrere a un’indagine privata sulla ragazza al centro dell’inchiesta – porta con sé un messaggio di totale sfiducia nei confronti del sistema giudiziario che Bonafede ha rappresentato per quasi tre anni. Un messaggio che lo chiama direttamente in causa. E a cui lui, da ex ministro della Giustizia, non può permettersi di non rispondere.

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