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Il ritorno di Vasco Brondi: «Voglio attraversare i decenni senza snaturarmi, come i miei maestri» – L’intervista

07 Maggio 2021 - 18:50 Maria Pia Mazza
Finito il progetto Le luci della centrale elettrica, il cantautore ferrarese si racconta a Open in occasione dell’uscita di «Paesaggio dopo la battaglia»

Che fine ha fatto Vasco Brondi? Per quattro anni è stato un po’ un eremita peregrinante. «Un po’ fuori dal tempo, ho avuto tempi biblici – ci racconta -. Ma sono i miei tempi, non mi sono mai obbligato a scrivere, ho sempre aspettato che ci fosse la necessità di scrivere qualcosa». Un fuoco di scrittura che però aveva perso forza, forse, «a causa della mia disillusione verso il mondo della musica». «O forse, si era allontanato da me il mondo della musica», ci racconta in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro Paesaggio dopo la battaglia, prodotto insieme a Taketo Gohara e Federico Dragogna.

Spento il progetto de Le luci della centrale elettrica, ci confida che spesso gli han chiesto se l’assenza così prolungata sia stata dovuta a blocchi nella scrittura. Ma non si è trattato di questo: «Il blocco avviene solo quando tratti la tua creatività come se fosse una macchina, quando introiettiamo così tanto il sistema e i ritmi frenetici che ci circondano, arrivando a pensare che anche noi funzioniamo come una macchina che si accende con un tasto. Ed è frustrante se non funzioniamo subito». 

Come hai vissuto quel periodo?

«Mi sembrava che la ricerca si fosse spostata orizzontalmente, nel tentativo di espandersi sempre di più, anziché procedere verticalmente, cioè partendo dalla profondità per poi raggiungere dimensioni più alte. Mi sembrava che tutto fosse diventato cercare di suonare in posti sempre più grandi: prima il locale grosso, poi il palazzetto, poi devi suonare allo stadio. Insomma, non è mai abbastanza. E quella non era proprio la mia ambizione».

Cos’è successo poi?

«Mi son reso sempre più conto dell’importanza di non perdere la concentrazione guardando quello che succede intorno, musicalmente parlando. Del resto i miei riferimenti sono De Gregori, Battiato, De André, Lucio Dalla, gli Afterhours, Vinicio Capossela e molti altri… Tutta gente che ha attraversato i decenni senza snaturarsi. De Gregori è passato attraverso gli anni Ottanta e la disco music e non si è girato neanche a vedere cosa stavano facendo gli altri. Lo stesso vale per Lucio Dalla. Nessuno di loro si è voltato mai a dire: “Oddio devo mettere la batteria elettronica”. No, hanno continuato per la loro strada. Anche Paolo Conte ha attraversato in smoking gli anni Ottanta, Novanta, Duemila: è ancora qui, incolume».

Sono alcuni dei «maestri» che citi in Città aperta?

«Alcuni sì, ma non tutti. Studiando le filosofie occidentali e orientali mi sono accorto che anche io ho avuto i miei maestri, ma avevano spesso i nomi di cantanti morti. Erano maestri molto imperfetti, umani, generosi. E mi hanno indicato la strada che nessuno mi indicava. Ora: per fortuna non sono tutti morti, alcuni li ho anche conosciuti. Però si possono seguire anche altri maestri, da Platone a Buddha, passando per Gesù Cristo: abbiamo tantissimi maestri da poter seguire. Ci si potrebbe intrattenere anche con le persone più brillanti che hanno messo piede su questa terra, no?».

E le maestre?

«Tante. Seguo molto Chandra Candiani, una delle più grandi poetesse italiane. Poi Mariangela Gualtieri, anche lei grandissima poetessa che ha fondato il teatro della Valdoca. Secondo me ha rivoluzionato sia la poesia, sia il teatro e andrebbe studiata nelle scuole dell’obbligo. E poi una delle mie stelle polari è Patti Smith. Lei ha iniziato leggendo poesie con qualcuno che suonava sotto, come accompagnamento. Piano piano ha saputo evolvere questa forma trasformandole in canzoni. Ed è esattamente quello che è successo a me quando da ragazzino: mi piaceva scrivere, ma mi piaceva anche la musica». 

Però ora sei tornato a scrivere e comporre. 

«Sì, all’improvviso è tornata la necessità di scrivere. In quel momento non avevo neanche in mente di fare un disco, ma è venuta fuori Chitarra nera. Quando l’ho scritta non mi sono neanche interessato di fare la forma-canzone giusta, dover applicare nessuna formula. Ho seguito solo il filo della verità di questa storia, per condividerla e, forse, anche per liberarmene. Per questo ho voluto fosse il primo singolo a uscire. Potrà sembrare improponibile, però per me era importante perché rivendicavo il non doversi nascondere e rivelarsi»

Insomma, dire la verità. 

«In questo lavoro è importante evolversi e custodire la propria curiosità, il fuoco che ti ha portato a fare musica. E io l’unico modo che ho è quello di continuare a ricercare, essere curioso e soprattutto dire la verità, senza l’idea di dover per forza stupire. Ecco, se si ha un blocco della scrittura, basta dire la verità. Poi da questa storia son iniziate a uscire le altre canzoni. Ho seguito il flusso di quello che arrivava»

Menzioni il fuoco, ma nell’album si osservano anche altri elementi naturali che si contrappongono alla città. Cosa ne hai tratto?

«Sono elementi che si vedono anche un po’ nel video di Chitarra nera, diretto da Daniele Vicari, con Elio Germano. Con Elio abbiamo avuto questa visione di qualcuno che usciva dalla città e entrava in un paesino, che poi diventa un bosco. Siamo partiti dalle leggi della città, che sono spesso i luoghi in cui viviamo, che sono fatti da esseri per esseri umani. La città è proprio un gioco di specchi tra di noi. A volte diventa un labirinto, tra ambizioni senza fine e senza senso, accecati da problemi minimi che non ci fanno rendere conto delle nostre benedizioni».

E poi, però, c’è il passaggio alla natura o comunque alle leggi dell’universo, no?

«Sì, dall’altra parte c’è la possibilità di aprirsi a queste leggi. Certe volte basterebbe anche solo uscire dalle città, respirare, vedere alberi che vivranno molto più di noi e sono lì da molto tempo più di noi. Servirebbe per rimetterci tutti al nostro posto. Le leggi dell’universo, se le assecondiamo, alle volte entrano in contrasto alle leggi della città»

Per esempio?

«È una riflessione che avevo fatto qualche tempo fa. Esemplifichiamo: il fatto che Carola Rackete abbia soccorso delle persone che stavano annegando, assecondando la legge umana e dell’universo di prestare soccorso a chi è in difficoltà, secondo le leggi della città pare aver fatto una cosa illegale. Insomma, le leggi della città ti processano se tu cerchi di assecondare una legge dell’universo». 

Un po’ una battaglia tra due parti. Come ti è sembrato il “paesaggio” in questi ultimi tempi?

«Paesaggio dopo la battaglia assieme a Sentiero degli dei sono nate proprio durante il primo periodo di lockdown. Forse sono quelle che più risentono e hanno dentro delle assonanze con l’esperienza che stavamo vivendo. In Paesaggio dopo la battaglia c’è l’Italia contemporanea, ma c’è anche l’Italia di Fenoglio con i partigiani che corrono in discesa tra gli spari senza divisa. Di fianco ci sono i rider che corrono di fretta tra le macchine, in missione per una multinazionale. E poi c’è l’Italia in rianimazione. Ci sono tante Italie di tante epoche che si mischiano con un sentire di fondo che resta quello nei secoli, come nazione». 

E Il sentiero degli dei

«C’è quella frase che dice: “Siamo solo due forme di vita sul terzo pianeta del sistema solare” che ci rimette lì al nostro posto di esseri umani, mentre siamo convinti di poter dominare e controllare l’universo. E invece siamo degli esseri piuttosto insignificanti sul pianeta terra: siamo i meno evoluti e pensiamo di essere più importanti o superiori. La pandemia ci ha dimostrato che non lo siamo. E ce lo dimostrerà sempre di più il fatto che stiamo rendendo inabitabile lo stesso pianeta su cui viviamo e che lasceremo».  

Dici che abbiamo 26000 giorni «per rivelarci, e non per nasconderci», no?

«Sì, è il numero di giorni che rappresenta l’aspettativa di vita media mondiale. Visti in giorni suona in un altro modo: “Abbiamo i giorni contati”. Se diventiamo consapevoli di questo, senza tristezza, diventa prezioso ogni momento. Io auguro questo a me stesso e a tutti: passare questo tempo che abbiamo qui, tutti vivi contemporaneamente, per rivelarci e non nasconderci, per essere di beneficio anche agli altri e non per dannarci per migliorare la nostra situazione, o per qualche mito di realizzazione personale»

E ora che le nuvole sembrano allontanarsi dall’orizzonte, come nella copertina dell’album, opera di Luigi Ghirri, cosa ti piacerebbe vedere dopo la tempesta?

«Spero che questa situazione ci faccia rendere conto che, oltre a essere accecati dai nostri problemi, possiamo essere attenti alle benedizioni che abbiamo. C’erano tante cose a cui adesso stiamo rinunciando e che prima avevamo, ma non eravamo grati, eravamo comunque malcontenti e ci lamentavamo. Ecco: pian piano che ritornano alcune comodità forse non le daremo più per scontate. Nel mio caso sarà quella di fare i concerti. Quando riuscirò a farli avranno un peso ancora maggiore».

Foto in copertina: Vasco Brondi, © Max Cardelli
Montaggio video: Vincenzo Monaco

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