Effetto Maneskin, Gino Castaldo: «Il rock era estinto. Questi ragazzi, e loro soltanto, lo hanno fatto riemergere» – L’intervista

Il critico musicale analizza il fenomeno dei campioni dell’Eurovision: «Riescono a trasformare un qualcosa di tradizionale in attuale e a dargli una forza immensa spontanea e naturale»

Partono dalle vie del centro di Roma. Passano da un talent show, dove si classificano secondi. Non si danno per vinti. Anzi. Perseverano. Vincono Sanremo 2021. Hanno solo vent’anni. E poi vincono ancora, questa volta l’Eurovision Song Contest 2021, riportando in Italia un trionfo che mancava da ormai 31 anni. Ma i festeggiamenti vengono macchiati dalle accuse della Francia, seconda classificata. Un caso, quello del presunto uso di cocaina in Eurovisione da parte del frontman, che diventa quasi un affare di Stato tra i due Paesi. E poi rientra, dopo il dietrofront delle accuse e con un test antidroga svolto volontariamente e risultato, come prevedibile, ovviamente negativo. E ora i Maneskin fanno bene a guardare oltre. A sognare di poter suonare al Glastonbury, un giorno. Vuoi per lo spirito, vuoi per l’età, la band romana sogna grandi cose per il futuro. E possono permetterselo. Del resto, i Maneskin sono «un po’ degli Out Of Place ARTifacts, dei reperti fuori posto ritrovati in uno scavo archeologico che, secondo gli esperti, dal punto di vista cronologico e storico non dovrebbero trovarsi lì. E però creano piacevoli e curiose sorprese», ci racconta Gino Castaldo, critico musicale, scrittore e giornalista. 


Cosa l’ha colpita dei Maneskin? 


«Sono un qualcosa di strano. Fanno della musica, se vogliamo, “antica”. Che non ha nulla a che vedere con quella dei ragazzi di oggi. Di rock ce n’è in giro, certo. Ma la musica attuale, in Italia così come nel mondo, è tutt’altra. Quindi sono un caso strano. Sono loro, sono proprio loro a far la differenza». 

Sono un’anomalia?

«Stilisticamente sono un’anomalia assoluta. Nel senso che fanno rock. Ma il rock, se non estinto, sembrava quantomeno in seria difficoltà negli ultimi anni. Del resto, adesso il nuovo underground parla un’altra lingua: è tutto rap e trap. Ecco perché i Maneskin sono l’eccezione che conferma la regola. Sono loro a dar vita al rock. Prima di dire che il rock è morto o no, bisogna pensare sempre se c’è chi lo fa». 

Quindi, checché se ne dica, possiamo tranquillamente definirli una rock band? 

«Ma certo. Anche la frase finale che ha detto Damiano dopo la vittoria dell’Eurovision (“Rock’n’roll never dies”), è vera nel momento in cui c’è qualcuno che lo fa. È assolutamente vero quello che ha detto. Prima che arrivassero loro, non avrei mai scommesso che il rock italiano potesse avere un exploit del genere». 

La scena rock italiana si era un po’ impoverita negli ultimi anni? 

«Di fatto non c’era più. Il rock sembrava aver perso un po’ la sua funzione, quindi era un po’ esaurito. Non c’erano artisti interessanti che lo facevano, quindi sembrava tutto spostato da un’altra parte. Ed è per questo che i Maneskin, in un certo senso, sono invece un’anomalia assoluta, oltre a essere un qualcosa di inaspettato».  

Forse anche un po’ per i preconcetti da talent che aleggiavano su di loro?

«No, quelle cose lì si dimenticano presto. Resto dell’idea che il percorso dei talent non faccia bene alla musica. Però poi alla fine ci sono eccezioni. E loro rientrano tra queste».

E l’esser stati affiancati da Manuel Agnelli, forse, un po’ li ha aiutati in un passaggio delicato di crescita artistica, no?

«L’incontro con Manuel è stato perfetto. Anche se credo che, in un qualche modo, con quella loro potenza che si portano dentro, sarebbero riusciti ad emergere comunque».

Nel panorama italiano, attualmente, ci sono altri artisti che hanno un potenziale simile al loro? 

«No. Ci sono tanti gruppetti rock, ma una cosa del genere proprio non la vedo. La loro forza è proprio quella: sono una cosa unica, sono loro. Punto. Non sono una scuola, non sono un movimento, sono loro e basta. E questo è un buon segno. Sono proprio imparagonabili a chiunque, in questo momento. Sono originali anche facendo una musica vecchissima, dal punto di vista prettamente stilistico. Non c’è nulla di nuovo in questo, ma sono loro stessi a renderlo nuovo».

Dopo la loro vittoria si sono scatenati i soliti cliché del “Non c’è più il rock di una volta, signora mia”. Questi tentativi di sminuirli così non sono un po’ insensati? 

«Questi commenti li trovo abbastanza irrilevanti. È facile vivere nel passato. Non ha senso fare paragoni, non servono a niente. Bisogna prendere le cose per quello che sono nel momento in cui lo sono e se hanno senso in questo momento, cioè se hanno una loro forza. E loro ce l’hanno. Certo, molti fanno questi paragoni perché il linguaggio musicale che usano è piuttosto classico».

Può spiegarci meglio?

«È come fare la cover di un pezzo: prendere un classico pezzo rock, ricantandolo alla propria maniera, attualizzandolo. Loro hanno fatto la stessa cosa con il rock: hanno preso il rock classico, gli hanno dato una forza e un’impronta propria nell’interpretazione e l’hanno attualizzato, rinfrescandolo e dandogli un sapore di nuovo». 

Insomma, il valore aggiunto dei Maneskin sono i Maneskin stessi. 

«Esatto, sono loro, sono proprio loro. Fra qualche tempo, forse, magari perché si genererà una sorta di loro emulazione, può darsi che arrivi qualcun altro che faccia rock nella nuova scena. Ma al momento non mi pare ce ne siano altri come loro».

Qual è la caratteristica più distintiva e che li rende unici?

«L’attrazione è dovuta al fatto che c’è del nuovo, che c’è il piacere della scoperta. Anche quando molti dicono che questi quattro ragazzi “non sanno suonare”, dicono fesserie. Quando De Gregori ha iniziato sapeva sì e no tre accordi. E anche se fosse – ma non è vero-, diamogli del tempo. Sanno suonare o non sanno suonare? Ma che importa! L’importante è quello che fanno, il risultato finale. E quello che continueranno a fare crescendo. Perché si può partire da ovunque musicalmente. Non è il punto di partenza, ma il risultato finale che conta».

Della loro esibizione quale elemento l’ha maggiormente colpita? 

«Mi ha colpito il candore di riuscire a utilizzare una musica così antica come se fosse la prima volta che si suona. Hanno un candore impagabile che fa sembrare fresco un pezzo rock tradizionale, come se fosse un’invenzione attuale. Questa è la loro forza. Riescono a trasformare un qualcosa di tradizionale in attuale, e a dargli una forza immensa spontanea e naturale. Vi sembra poco?». 

Foto in copertina: EPA/Sander Koning / POOL

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