La storia terribile del piccolo Di Matteo, sciolto nell’acido da Brusca che oggi torna libero

Rapito a 12 anni, il bambino venne ucciso l’11 gennaio 1996 dopo 25 mesi di prigionia. Il padre, ex mafioso e collaboratore di giustizia, insorge: «Lo Stato si è fatto fregare, Brusca non è umano»

Un pellegrinaggio di casolare in casolare, chiuso nel bagagliaio dell’auto, poi imprigionato per 180 giorni in una stanza nascosta sotto il pavimento di un bunker nelle campagne di San Giuseppe Jato, nell’entroterra palermitano. Giuseppe Di Matteo, rapito da Cosa Nostra all’età di 12 anni, fu strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi dal giorno del sequestro. Uno dei mandanti di quella vicenda, Giovanni Brusca, tra i responsabili anche della strage di Capaci, ha lasciato il carcere dopo un quarto di secolo dietro le sbarre. Maria Falcone, sorella del giudice ucciso, si è detta «umanamente addolorata» per la scarcerazione. Santino Di Matteo, padre di Giuseppe, si è scagliato contro lo Stato: «Si è fatto fregare». Con il Corriere, ha ripercorso ciò che accadde a suo figlio a metà degli anni ’90: «Ha sciolto mio figlio nell’acido, ha strangolato una ragazza incinta, Brusca non appartiene alla razza umana: se lo trovo per strada non so cosa succede». Il sequestro e l’omicidio del piccolo furono un tentativo di dissuadere l’ex mafioso Santino dalla collaborazione con gli investigatori. Il cadavere del 14enne non è mai stato ritrovato: il corpo fu disciolto in un fusto di acido nitrico.


Il 19 gennaio 1981, Brusca, allora boss latitante di San Giuseppe Jato, diede ordine di rapire Giuseppe da un maneggio nella Piana degli Albanesi. I sequestratori si travestirono da agenti della Dia, convincendo il piccolo a seguirli per andare a incontrare il padre, sotto protezione per aver iniziato a collaborare con la giustizia. Gaspare Spatuzza, che partecipò all’operazione, ha dichiarato: «Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi». L’adolescente fu legato, chiuso nel bagagliaio di un furgone e poi consegnato ai primi carcerieri. Alla famiglia Di Matteo cominciarono ad arrivare le foto di Giuseppe con biglietti minatori. Al nonno arrivò questo messaggio: «Il bambino ce l’abbiamo noi, non andare ai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote». Una seconda volta, sempre al nonno, venne mostrata la fotografia di Giuseppe incarcerato e i mafiosi gli intimarono: «Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie».


Era il 1994: Giuseppe veniva spostato con frequenza in masserie ed edifici disabitati, dal trapanese al palermitano, fino all’agrigentino. Santino non ritrattò le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo. Nell’estate del 1995, suo figlio fu portato alla destinazione finale, in un casolare-bunker nelle campagne di San Giuseppe Jato. Qui venne rinchiuso in un anfratto sotto il pavimento al quale era possibile accedere solo azionando un meccanismo elettromeccanico. Rimase prigioniero nel vano sotterraneo per sei mesi. Il processo si celebrò mentre Brusca era ancora latitante: il mafioso, soprannominato u verru – il porco – venne condannato all’ergastolo. Fu allora che, da lui, partì l’ordine verso il fratello Enzo, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo di assassinare il figlio di Santino. Morto per strangolamento, il suo corpo venne sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996. Così Chiodo, nell’udienza del 28 luglio 1998, raccontò il macabro omicidio:

Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello ce abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire.

Brusca fu condannato come mandante dell’omicidio. Dopo essere diventato collaboratore di giustizia anch’egli, durante un’udienza del processo sulla strage di Capaci, chiese «perdono» ai Di Matteo. Nel 1998, Santino, incrociandosi in aula con Brusca durante un’udienza del Borsellino bis, gli lanciò un microfono e lo minacciò di morte: «Animale non sei degno di stare in quest’aula. Ti dovrei staccare la testa». Brusca, il primo giugno 2021, è uscito dal carcere.

Ho ucciso io Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.

Dichiarazione di Giovanni Brusca tratta dal libro “Ho ucciso Giovanni Falcone“, Mondadori

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