Automazione, sostegni al reddito, tecnologia: ecco perché i posti di lavoro persi durante la pandemia non torneranno

Dall’America all’Europa emerge un quadro chiaro: le aziende adesso sanno di potere fare di più in meno tempo e utilizzando meno risorse. L’impatto sul mercato del lavoro è già cominciato

Dopo i ripetuti lockdown per la pandemia di Coronavirus il mercato del lavoro si è riaperto, ma tante aziende sembrano fare fatica a trovare dipendenti. La sensazione, sbagliata, è che le aziende abbiano un gran bisogno di forza lavoro e non riescono a trovarla a causa dei sussidi troppo generosi introdotti durante la pandemia. La realtà invece è che molte imprese – che durante i lockdown hanno licenziato o messo in cassa integrazione i dipendenti – nel prossimo futuro prevedono di impiegare meno persone. Le aziende infatti stanno sviluppando processi di automazione e riorganizzazione che permetterà di emergere dalla crisi con una forza lavoro ridotta rispetto al mondo pre-Covid. Tradotto in parole semplici, tanti posti di lavoro persi nel 2020-2021 non torneranno. Come negli shock economici del passato, la recessione imposta dalla pandemia ha obbligato le imprese a rivedere i metodi di lavoro e della produzione. Un cambiamento che ha coinvolto tutti i settori, dal mondo alberghiero e della ristorazione al settore dei trasporti, dalle fabbriche ai negozi al dettaglio, passando per tutti gli aspetti della fornitura di servizi. Anche le aziende meno innovative hanno scoperto come ridurre i costi del personale usando al meglio le tecnologie digitali esistenti.


Un cambiamento che impone di adattarsi

I dati del Bureau of Labour Statistics dimostrano che le aziende statunitensi hanno imparato a fare di più con meno ore. Nel periodo gennaio-marzo 2021 la produzione è quasi tornata ai livelli pre-pandemia, ma le ore lavorate sono state il 4,3% in meno rispetto al periodo ottobre-dicembre 2019 (l’ultimo senza pandemia), con un output solo dello 0,5% inferiore. Nonostante il mercato del lavoro americano in questo momento risulti dinamico sia per i professionisti che per i lavoratori meno specializzati, non tutti riescono a trovare un’offerta che corrisponda alle proprie competenze, creando il paradosso di una disoccupazione relativamente alta (il 5,9%) nonostante le offerte di lavoro. Negli USA registrare queste variazioni nel mercato del lavoro è più facile rispetto ai paesi dell’Unione europea. Fin dal primo lockdown gli statunitensi che hanno perso completamente il lavoro (niente smart-working) hanno iniziato a percepire il sussidio, un tasso di disoccupazione impennatosi fino al 14,7%. L’immagine della prima pagina del New York Times occupata dal grafico con il picco di disoccupati in una settimana è passata alla storia. Quel dato oggi risulta più che dimezzato.


Le differenza tra l’America, l’Europa e l’Italia

In Europa è diverso, i paesi hanno un welfare più articolato, come la cassa integrazione italiana, che ha permesso alle persone di ricevere assistenza senza perdere il posto di lavoro, e rientrare subito in azienda con lo stesso contratto. Nel caso italiano (unico nell’Ue) è stato introdotto anche il blocco dei licenziamenti (rimosso da poco), e la disoccupazione reale e potenziale ha continuato a rimanere «nascosta». Ma il problema si presenterà, i licenziamenti delle ultime settimane sono un segnale allarmante. Nel 2020 in Italia la disoccupazione è rimasta stabile intorno al 9,3% addirittura mantenendo il trend in calo rispetto al passato, ma i dati Istat rilevano che nel periodo gennaio-marzo 2021 è salita al 10,4%. Se gli USA hanno il problema di imprese che hanno bisogno di meno personale rispetto all’epoca pre-covid, l’Italia rischia di trovarsi nella posizione di non avere neanche queste aziende così dinamiche da produrre di più con meno personale. Inoltre, a pesare sul futuro c’è la sfida della riconversione ambientale, che può mettere fuori mercato imprese e lavoratori. Un rischio riconosciuto apertamente dalla strategia Fit for 55 dell’Ue, dove si tiene conto dei costi sociali della rivoluzione verde stanziando un fondo di assistenza. Si pensa a sussidi e investimenti per «riformare» la forza lavoro e collocarla in impieghi più moderni, ma passare dalla teoria alla pratica è molto difficile. 

Neet Generation EU

Il 14 luglio l’Eurostat ha presentato i dati sui giovani adulti di età compresa tra i 20 e i 34 anni che rientrano nella categoria NEET (Neither in Employment nor Education and Training). L’Italia ne esce male, il 30% non risulta in cerca di un lavoro (+1,2% rispetto al 2019) e non frequenta una scuola o corso di formazione (la media Ue è il 17,6%). La pandemia di Covid-19 ha avuto un impatto negativo su tutta l’Unione, ma l’Italia fa peggio anche della Grecia (25,9%). Tra gli obiettivi del Recovery Fund c’è un aumento dell’occupazione e l’obiettivo di consegnare alla prossima generazione un’Europa «più resiliente» anche nei posti di lavoro offerti. I numeri però risultano meno confortanti dei proclami.

L’impatto del Recovery Fund

Secondo le stime del Mef, da qui al 2026 il Piano nazionale di ripresa e resilienza porterà alla creazione di 750.000 posti di lavoro, con 90.000 entro il 2023 destinati ai più giovani. Possono sembrare numeri grandi, ma non sono molti rispetto a 191,5 miliardi di euro e le riforme promesse. Secondo uno studio del ricercatore dell’Ocse Andrea Garnero, a conti fatti significa creare 3,9 posti di lavoro per ogni milione di euro stanziato. Gli altri paesi hanno «moltiplicatori dell’occupazione» molto più elevati. Fanno meglio in Francia (12 posti), la Spagna (11,5), Grecia (6,2) e Germania (8,2). Cosa spieghi una differenza così marcata non è del tutto chiaro, ma è un segnale preoccupante soprattutto per i giovani che devono decidere quale percorso di formazione intraprendere e che faranno bene a non fare troppo affidamento sul Recovery Fund. Non in Italia almeno.

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