Le donne in trappola in Afghanistan, la storia di Fariba: «Chiusa in cantina, mi sento come Anna Frank»

«Ho mandato mail in Canada, Francia, Stati Uniti, Italia: non mi ha risposto nessuno»

Si chiama Fariba, è un’attivista libertaria e aveva 8 anni nel 2001, quando i talebani vennero spodestati dall’Occidente in Afghanistan. Oggi, racconta La Stampa, vive chiusa in una cantina mentre nella sua città le strade sono deserte. In attesa che gli “studenti di religione”, finita la recita della moderazione ad uso e consumo della comunità internazionale, tornino a fare quello che hanno sempre fatto: opprimere. «Ho visto un video documentario sulle persecuzioni naziste degli anni Trenta, mi sento braccata come Anna Frank. Da tre giorni sto nascosta con mio marito nell’angolo cieco di una vecchia piccola casa di campagna in una località sconosciuta intorno Kabul, passano le ore e io scrivo le mie memorie sul computer che alcuni parenti mi hanno fatto avere a rischio della vita, chatto con chi è nascosto come me, contatto gli amici emigrati all’estero per chiedere sostegno e aiuto».


Fariba racconta di aver cercato di scappare dall’Afghanistan, ma senza successo: «Ho mandato già tantissime email, mi aggrappo a qualsiasi opportunità sembri praticabile per venire fuori da qui, ho chiesto un visto in Francia, in Canada, negli Stati Uniti, in India, in Italia. Controllo la posta elettronica di continuo, non ho ancora ricevuto risposta: né sì, né no, silenzio assoluto». Ed esorta a non fidarsi delle immagini di Tolo News sulle donne giornaliste e delle proteste: «Tolo ha negoziato con i talebani, non può rappresentare tutte le donne, mostra coraggio sì ma da dietro una barriera protettiva, una narrativa rassicurante, il modo “taleban” di semplificare la situazione. Altro che resistenza. Abbiamo invece tutte una paura tremenda, pochissime hanno il fegato di camminare per la strada».


Perché dietro la maschera della moderazione i talebani stanno ricominciando a uccidere: «Appena entrati a Kandhar hanno giustiziato quattro militari; a Nangahar, dove oggi (ieri ndr.) è stato ricordato il giorno dell’indipendenza dell’Afghanistan, hanno sparato addosso agli attivisti che volevano sventolare la bandiera nazionale. Li conosciamo bene i talebani, li abbiamo riconosciuti subito: aspettano di ricevere nuove armi e di essere “accettati” dalle Nazioni Unite per rimettere in piedi le loro regole e i loro metodi». E racconta come è cambiata la sua vita in dieci giorni, quelli che ci hanno messo i talebani per riprendersi l’Afghanistan: «Ho studiato con il sostegno morale dei miei genitori, sono laureata in informatica, ho sposato mio marito per amore dopo cinque anni di relazione alla luce del sole e insieme abbiamo lavorato fino all’ultimo nell’ambito dei diritti umani. Non ho mai indossato il burqa perché potevo andare fiera del mio impegno, a testa alta. Ora di colpo mi ritrovo prigioniera tra quattro mura, dormiamo solo con i tranquillanti, mangiamo riso e verdure che ci lasciano qui fuori alcuni conoscenti una volta al giorno, anche aiutarci è pericoloso».

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