Medicina d’urgenza e rianimazione a corto di specializzandi: persa una borsa di studio su 10

Su 17 mila borse di studio quinquennali, 1.700 sono state non assegnate o rifiutate. La maggior parte tra le specializzazioni Covid

Da oltre un anno e mezzo, a causa della pandemia, abbiamo sentito parlare quotidianamente di reparti fondamentali all’interno degli ospedali come la medicina d’urgenza e la rianimazione. Ma l’emergenza Covid non sembra avere spinto i giovani medici a sceglierle come specializzazioni. I posti vuoti non mancano: quest’anno, scrive il Corriere, c’erano a disposizione 17 mila borse di studio quinquennali per gli specializzandi che cominceranno i corsi il primo novembre: 1.300 non sono state assegnate o sono state rifiutate. Non è tutto: il più alto numero di posti vuoti riguarda proprio le specializzazioni Covid. Per i medici di pronto soccorso di 1.077 borse di studio 456 sono rimaste senza titolare. Per gli anestesisti e tecnici di rianimazione ce n’erano 2.100 a disposizione, di cui 166 sono rimaste vuote, mentre e per microbiologia e virologia ne sono avanzate 76. Un quadro allarmante. Ma non è il primo anno che di fronte alla scelta di come proseguire il proprio percorso di studi i giovani medici preferiscono professioni «ambulatoriali». La ministra dell’Università Cristina Messa aveva già lanciato l’allarme su questo fenomeno che rischia di lasciare vuoti molti posti chiave negli ospedali già nei prossimi anni. Ma quali sono le ragioni che frenano i futuri medici?


Secondo Salvatore Manca, presidente della Società italiana della medicina di emergenza-urgenza (Simeu), il problema sta nello scarso riconoscimento di una professione fatta di fatica, pressione e grande responsabilità, unita alla difficoltà di fare carriere. «I giovani sono disincentivati a scegliere la specializzazione in pronto soccorso o rianimazione perché è un lavoro molto gravoso che non è riconosciuto», ha spiegato al Corriere. Oltre a essere «aumentate le aggressioni da parte dei malati e dei parenti che costituiscono un preoccupante rischio per tutti noi». E secondo rianimatori non c’è un riconoscimento che si tratti di una professione «usurante».


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