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Nucleare di nuova generazione per la transizione verde: energia del futuro o fumo negli occhi? – L’inchiesta

17 Gennaio 2022 - 17:44 Giada Ferraglioni
Da Cingolani ad alcuni gruppi ambientalisti, l'ipotesi delle nuove tecnologie nucleari ha conquistato di nuovo il dibattito pubblico. Ma è davvero utile per raggiungere gli obiettivi dei prossimi 10 anni?

«Viviamo i ruggenti anni venti della transizione ecologica». Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, è ben consapevole dell’importanza strategica del prossimo decennio nella lotta al cambiamento climatico. A questo proposito, il prossimo 21 gennaio l’Unione europea dovrà dare il via libera alla tassonomia, la lista di investimenti considerati green proposta dalla stessa Commissione. L’obiettivo è quello di indirizzare i fondi privati su determinate energie considerate “di transizione”, che permettano di raggiungere gli obiettivi sulle emissioni di CO2 presenti nel Green Deal europeo. Nell’elenco sono stati inclusi anche il gas e il nucleare: una scelta che ha spaccato l’opinione pubblica e provocato reazioni alterne di rabbia e entusiasmo. Soprattutto per quanto riguarda il nucleare, il dibattito tra ambientalisti è frammentato: c’è chi preferisce senza appello ricorrere alle rinnovabili classiche (cioè riconducibili a fonti naturali non soggette ad esaurimento, come l’energia solare), e chi vede nella potenza del nucleare la soluzione più adatta ad alimentare un sistema economico come il nostro.

La stessa Commissione, consapevole della delicatezza del tema, ha deciso di non classificarle come green a tutti gli effetti, ma solo come temporaneamente «utili» a raggiungere l’obbiettivo net-zero del 2050 e quelli più vicini del 2030. Gli ultimi sondaggi realizzati in Italia parlano di una crescente fiducia della popolazione nelle tecnologie di nuova generazione. Anche il ministro Roberto Cingolani ha detto a dicembre: «Noi abbiamo votato dei referendum che hanno escluso il nucleare. Ma era quello di prima generazione, non quello di cui si parla adesso». In questo senso, l’Ue finanzia da anni progetti di ricerca che mirano a superare il sistema a fissione classico che ha portato numerosi problemi nel corso della storia (dalla sicurezza degli impianti allo stoccaggio dei rifiuti radioattivi). A oggi, le principali alternative al nucleare classico sono due: la fissione di IV Generazione e i reattori a fusione nucleare. Ma sono davvero utili alla svolta green di cui abbiamo bisogno nei prossimi 10 anni?

Le prospettive della fusione nucleare

Tra gli enti che in Italia e in Europa più si muovono per la ricerca in questo senso c’è l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea). Alessandro Dodaro, direttore del dipartimento Enea di Fusione e Tecnologie per la sicurezza nucleare, ha spiegato a Open le nuove frontiere del nucleare a fusione. A differenza di quello “classico” (cioè a fissione), l’energia derivante dal processo è inesauribile. Uno dei problemi della fissione nucleare è proprio la non-rinnovabilità della materia prima – l’uranio o il plutonio – che persiste anche nei reattori di III Generazione (come gli Small Modular Reactor, più piccoli e economici degli altri impianti).

In breve: la fusione è il processo in cui due nuclei si uniscono per formarne uno più pesante, mentre la fissione (quella usata finora) è quello dove un nucleo si divide in due nuclei più leggeri. Nella fusione, l’energia scaturisce dall’unione di due nuclei di elementi molto leggeri quali, ad esempio, l’idrogeno: la reazione produce un neutrone e l’elio, un gas nobile ampiamente utilizzato nella vita quotidiana. Il processo di fissione comporta la produzione di scorie altamente radioattive, mentre nella fusione non ci sono rifiuti pericolosi di nessun tipo, né rischi di disastri ambientali. Attualmente, Enea sta lavorando su due progetti a fusione: l’ITER e il DTT.

  • ITER, ovvero l’International Thermonuclear Experimental Reactor: è promosso da Unione europea, Cina, Corea, Giappone, India, Russia e Stati Uniti ed è progetto di «estrema complessità» e che ha raccolto miliardi di investimento negli ultimi anni.
  • DTT , ovvero Divertor Tokamak Test, un impianto sperimentale ideato per dare, insieme ad ITER, risposte ad alcuni dei nodi più complessi sul cammino della fusione.

I vantaggi per l’ambiente

I vantaggi della fusione sarebbero molti: oltre all’eliminazione del problema dei rifiuti, si avrebbero, come spiega Dodaro, «zero impatto da estrazione dei combustibili, la sicurezza intrinseca e lo sviluppo di tecnologie innovative applicabili in numerosi campi, dalla salute ai trasporti, ad esempio con i treni a levitazione magnetica Maglev».

Le tempistiche

Il progetto internazionale (Iter) è attivo dal 2007 e attualmente non prevede di chiudersi tanto presto. Lo stesso Dodaro ha confermato che non potrà essere utile per il mercato prima del 2050.

La ricerca italiana sulla fissione

Parallelamente, Enea collabora con lo sviluppo anche delle tecnologie più avanzate in ambito di fissione. Per fare ancora chiarezza: la fissione nucleare è un processo di disintegrazione dell’atomo che libera una grande quantità di energia, generata dall’urto fra un neutrone e nuclei di atomi molto pesanti (come l’uranio, appunto), che si rompono in frammenti più piccoli e producono neutroni – che possono a loro volta provocare altre fissioni, innescando reazioni a catena. Normalmente, i processi di accelerazione e reazione sono sono realizzati in un unico complesso.

Come spiegano dall’Agenzia, il vero punto di svolta sono i Reattori di IV Generazione, tra cui i Reattori veloci refrigerati a piombo (LFR), che rappresentano la quasi esclusività delle attività di ricerca e sviluppo nel settore italiano. A questo proposito, tra le collaborazioni di Enea c’è quella con la Newcleo, una startup fondata dal fisico nucleare Stefano Buono e dall’ingegnere nucleare Luciano Cinotti e inaugurata ad agosto del 2021. Buono vanta una collaborazione importante al Cern con il premio Nobel e senatore a vita Carlo Rubbia, durata dieci anni. L’azienda, come ha spiegato Laura Vergani di Newcleo a Open, sta lavorando a tre differenti prospettive di ricerca, che dovrebbero segnare il futuro della tecnologia:

  • Un reattore di piccole dimensioni raffreddato a piombo, da 30Mwe. A differenza del sodio, che è altamente infiammabile quando entra in contatto con l’acqua, è estremamente sicuro e più economico. Riduce la produzione di scorie radioattive perché si può riutilizzare il materiale come carburante e produrre energia. Tempi di realizzazione e messa in commercio: 7-10 anni;
  • Un reattore da 200Mwe, utilizzabili per la produzione e distribuzione dell’energia su larga scala. Tempi di realizzazione e messa in commercio: almeno 10-12 anni;
  • L’Accelerator-driven systems, il «reattore ideale». Tempi di realizzazione: almeno 12-15 anni.

Come spiegano dall’azienda, il progetto più ambizioso – che non verrà messo a punto prima di 15 anni – è quello pensato dallo stesso Rubbia durante gli anni del Cern (da qui l’appellativo “rubbiatron“): l’Accelerator-driven systems (Ads), letteralmente dei “sistemi guidati da un acceleratore”. In questo modello – mai realizzato prima – il reattore (sempre a piombo) per funzionare avrà bisogno di neutroni prodotti dall’esterno grazie a un acceleratore di protoni. L’idea di “separare” le due parti del processo di fissione aumenterebbe, secondo le ricerche, il livello di sicurezza della centrale: in caso di black-out elettrico (l’evento più rischioso in assoluto per una centrale nucleare) l’acceleratore smetterebbe di funzionare e il reattore, non ricevendo i neutroni necessari, si spegnerebbe. «Con questo sistema – spiega l’azienda – quanto successo a Černobyl’ non potrebbe mai verificarsi».

Come risolverebbe il problema delle scorie e della rinnovabilità energetica

Secondo la Newcleo, i reattori di IV generazione saranno estremamente utili per ridurre il problema delle scorie radioattive. Per aggirare l’inconveniente della non rinnovabilità dell’uranio e delle scorie che produce, inoltre, la Newclo sta portando avanti delle ricerche per introdurre il torio tra i carburanti. A differenza dell’uranio, il torio è meno raro, non ha bisogno di essere arricchito e non produce gli stessi scarti nucleari. Il tempo di ritorno a una radioattività “naturale” del torio è di circa 200-300 anni, contro i 200-300 mila di materiali come il plutonio. Inoltre, i reattori di piccole dimensioni – che possono essere facilmente trasportati e che hanno un’indipendenza di una decina di anni – possono essere usate anche nel trasporto navale, una delle industrie più inquinanti al mondo. Anche in caso di naufragio, il materiale radioattivo a contatto con l’acqua rimarrebbe nel piombo raffreddato.

Tutto risolto? Non proprio

Come visto, i tempi di realizzazione di sistemi di questo tipo non sono irrisori. Allo stesso modo, per rispettare le tabelle di marcia più ottimistiche c’è bisogno di un grande investimento di denaro nella ricerca. Per la fusione nucleare, che promette di essere l’ultima frontiera in campo di sicurezza, l’impegno non è poco: come ha spiegato Dodaro, i costi della ricerca sulla fusione sono «certamente molto alti». Solo il progetto ITER prevede circa 20 miliardi di euro di investimenti. Inoltre, per mettere a punto la tecnologia, la road map va oltre l’agenda europea del 2030 e del 2050. Non c’è modo, dunque, di affidarcisi per raggiungere gli obiettivi a breve-medio termine. Per quanto riguarda la fissione di IV generazione, l’inserimento del nucleare nella tassonomia permetterebbe un maggior investimento di risorse private nella ricerca e nella realizzazione dei progetti. Ma si tratta comunque di un modello che, nella migliore delle ipotesi, vedrà la luce non prima del 2037, esclusi i tempi di realizzazione delle centrali.

Legambiente: «Sono 20 anni che aspettiamo risultati concreti»

Stefano Ciafani, ingegnere e presidente di Legambiente, è stato per anni responsabile scientifico dell’associazione ambientalista. Il primo rapporto che ha curato per Legambiente, nel 1999, riguardava l’eredità radioattiva in Italia e i problemi di smaltimento dei rifiuti nucleari. «Personalmente da 20 anni sento parlare del programma ITER e delle ricerche sui reattori di IV generazione», ha detto a Open. «Dovrebbero risolvere tutti i problemi: la proliferazione nucleare, i rischi di incidente, la questione dei costi e quella dei rifiuti. Ma a oggi non c’è stato nessun risultato concreto». Per Ciafani, investire sulla ricerca per un nucleare potenzialmente più sicuro non è una cosa sbagliata di per sé. Quel che rischia di farci perdere tempo prezioso, dice, è concentrare il dibattito su qualcosa che non ci permetterà di agire nell’immediato: «Stiamo parlando di un’opzione tecnologica che se mai arriverà, arriverà troppo tardi. Le grandi azioni vanno fatte in questo decennio: dobbiamo far svoltare il futuro del pianeta entro il 2030».

«Pensiamo alle rinnovabili già sul mercato»

Secondo Legambiente, in questo momento storico è fondamentale per capire dove andare a investire le risorse pubbliche per una transizione green concreta. Che siano quelle del NextGenEu o delle Leggi di bilancio, il punto è individuare subito soluzioni sicure, che non producano scorie, che emettano poca CO2 e che siano pienamente disponibili sul mercato. Bisognerebbe utilizzare al meglio il tempo che ci rimane per capire come esemplificare l’istallazione delle rinnovabile sul territorio, come sviluppare gli impianti eolici e agrovoltaici, e di come rendere semplice realizzare i fotovoltaici integrati (quindi non visibili) sui tetti dei centri storici.

La tassonomia, come è chiaro, è frutto anche di mediazioni politiche: che la Francia sia interessata a mantenere intatta la sua industria nucleare è comprensibile, ma, per Legambiente, «che l’Italia si accodi è privo di senso». «Sul riaprire le centrali nucleare di vecchia generazione non discuto neanche: dobbiamo ancora decidere dove fare il deposito unico dei rifiuti radioattivi. Sul nucleare di futura generazione, vedremo quando sarà il momento: ora capiamo come passare dagli 800MWe di rinnovabili istallati ogni anno agli 8.000MWe necessari a rispettare gli obiettivi europei».

Immagine di copertina: ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

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