Il senatore Marcucci contro l’alleato Conte: «Il Pd perno di un campo largo, ma solo con una parte di M5s»

Il senatore democratico, parlando a Open, indica una strada alternativa per il suo partito rispetto a quella dell’alleanza con i grillini, di cui salva solo «la parte più affidabile e leale»

Il caos divampato all’interno del Movimento 5 stelle impone riflessioni anche al partito che, dopo la caduta del governo Conte, ha cercato di saldare un’alleanza con i grillini. Quel partito definito “di Bibbiano” fino a quando non hanno dovuto conviverci nella stessa maggioranza, aprendo al cosiddetto campo largo progressista. Concluse le elezioni presidenziali, sono tanti i democratici a mettere in dubbio la credibilità degli alleati 5 stelle. Se ne fa portavoce esplicito il senatore Marcucci che, a Open, disegna un percorso alternativo per il futuro del Pd: «Credo che le votazioni per il Colle abbiano confermato le ragioni di un campo largo con il Pd come perno. I nostri alleati – tuttavia – dovranno essere le forze centriste e liberali e quella parte del M5s che si è dimostrata più affidabile e più leale».


Senatore, come escono i leader dei partiti da queste elezioni presidenziali?


«Direi che le carenze e le insufficienze dimostrate anche da altri sono state coperte dal disastro assoluto di Matteo Salvini. Il suo avventurismo ha tenuto bloccato il parlamento per cinque giorni».

Sono emerse grosse faglie all’interno dei gruppi parlamentari. Nel suo stesso Pd, a un certo punto, c’era chi spingeva per Draghi, chi per Casini, chi per Mattarella. Queste divergenze impongono un’accelerazione all’avvio di una fase congressuale?

«Abbiamo avuto e abbiamo ancora come Pd sensibilità diverse anche sui candidati del Quirinale, ma anche la consapevolezza che se la scelta fosse finita sugli altri due – Casini e Draghi – il partito sarebbe rimasto sostanzialmente unito. Quanto al congresso, abbiamo uno statuto che regola e istruisce le date per convocarlo. Ma oltre alle norme, c’è la politica, e io credo che sia salutare in vista delle elezioni che il Pd torni a confrontarsi con i propri elettori per stabilire insieme alleanze e priorità».

Il presidente del Movimento 5 stelle, Conte, ha chiesto pubblicamente di non parlare di coalizione di centrosinistra, ma di campo progressista quando si riferisce all’alleanza tra Pd, M5s e Leu. Le piace come definizione?

«Io credo che le votazioni per il Quirinale abbiano confermato le ragioni di un campo largo con il Pd come perno. I nostri alleati dovranno essere le forze centriste e liberali e quella parte del M5s che si è dimostrata più affidabile e più leale. Ultimo ma non per per importanza, il sistema elettorale. Serve in ogni modo una legge proporzionale».

Nelle negoziazioni per il Colle, il M5s non si è rivelato sempre un partner affidabile. Questo pregiudica il prosieguo di una collaborazione?

«Non sono un buon analista di cose interne al M5s: per la verità, non ci ho mai capito molto. Diciamo che su alcune candidature ipotizzate per il Colle, a volte si è avuta la sensazione del ritorno ad un asse gialloverde».

In alcuni momenti sembrava che nel Movimento ci fossero due segretari di partito, Conte e Luigi Di Maio. Menomale che erano i 5 stelle a criticare il sistema correntizio del Pd.

«Le correnti non sono il male della politica, anzi costituiscono l’ancoraggio a determinati valori culturali. Questo ovviamente fino a quando non degenerano in lotte per il potere, fini a se stesse, che da fuori è quello che sembra stia avvenendo nel M5s».

Chi ha giocato meglio la partita del Quirinale tra l’ex premier Conte e il ministro degli Esteri?

«Apprezzo non da ora l’equilibrio del titolare della Farnesina, il suo buon senso e la sua capacità di essere un alleato franco e solido. Dell’ex presidente Conte, che pure stimo, non ho ben capito alcune mosse».

Ha scritto che «Di Maio è vittima di una campagna politica sconsiderata». I vertici del Movimento sembrerebbero i primi artefici. Per il Pd i dissidi interni agli alleati sono un problema?

«Con l’elezione di Mattarella, il governo è più forte e il presidente del Consiglio ha l’autorevolezza necessaria per completare il ciclo delle riforme. Al di là delle dinamiche interne, io credo che la maggioranza dei gruppi parlamentari abbia compreso l’urgenza di un ritorno al proporzionale. Io l’ho detto per mesi, avendo firmato come capogruppo il documento di nascita del Conte due ma ero rimasto praticamente solo a ricordarlo, ora sono davvero contento che sia diventata un’esigenza comune».

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