Quirinale, ovvero la Caporetto dei leader di partito

Nessuno tra segretari e presidenti è stato in grado di gestire le trattative. Paradossalmente, l’unica a poter gioire è Meloni: sempre coerente con la sua linea e che, adesso, potrà raccogliere il consenso di chi si oppone a questa classe dirigente

Sette anni per costruirsi l’immagine di uno dei presidenti più amati della storia repubblicana. Ora nei prossimi sette anni Sergio Mattarella dovrà lottare affinché la sua fibra da costituzionalista non ceda a una forzatura istituzionale a cui non voleva prestarsi. Il dubbio che un Paese occidentale e pienamente democratico possa avere nel ruolo di capo dello Stato la stessa persona per 14 anni aleggia. Anzi, si inspessisce alla luce delle dichiarazioni arrivate proprio dal Quirinale nelle passate settimane: non si può eleggere un presidente della Repubblica a scadenza. Poi, nel solco di quanto detto da due suoi predecessori – Antonio Segni e Giovanni Leone -, Mattarella si era esplicitamente opposto all’opportunità di un secondo mandato presidenziale e, conseguentemente, all’abolizione del semestre bianco. Invece, come successe nel 2013 per Giorgio Napolitano, ecco che il parlamento torna a chiedere al presidente uscente di restare ancora al Colle. Allora fu un’eccezione. Oggi rischia di consolidarsi come prassi.


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Colpa di una disgregazione nell’arco parlamentare che, in questa settimana di elezioni, è esplosa su tre livelli. Coalizioni di centrodestra e di centrosinistra tutt’altro che coese. Maggioranza di governo tenuta insieme soltanto dall’autorevolezza – peraltro compromessa in questi giorni – di Mario Draghi. E, infine, partiti balcanizzati che non seguono i propri leader. Saranno segretari e presidenti i primi indiziati per l’insuccesso della negoziazione che li ha portati a dover esultare – eccezion fatta per Giorgia Meloni – per la candidatura di Mattarella. La più prestigiosa, sia chiaro, ma che mal cela l’incapacità di chi, a turno, si è trovato a ricoprire il ruolo di kingmaker. Il centrodestra è frantumato. Il Partito democratico sembra precipitare verso una tumultuosa fase congressuale. Il Movimento 5 stelle si è piegato alle sue correnti interne più dei partiti che un tempo, per i grillini, rappresentavano la casta.

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Giuseppe Conte, un presidente a metà

Il presidente del Movimento aveva puntato i suoi gettoni sulla candidatura di una donna. Incredibilmente, il nome di Elisabetta Belloni era stato subito rivelato alla stampa la sera prima del settimo scrutinio. Beppe Grillo aveva acclamato in pompa magna su Facebook la presidente del Dis. Nei giorni precedenti, Conte aveva avuto persino l’opportunità di gestire la partita dopo le evidenze delle crepe del centrodestra. Il suo gruppo parlamentare è il primo per dimensioni, avrebbe potuto trattare da una posizione di forza sia nel campo progressista sia, in un accordo non inedito per lui, con la Lega. Ma la paura di non mantenere la compattezza dei suoi delegati su nomi che potessero andare bene al centrosinistra e la diffidenza nei confronti di Salvini – i due si sono parlati il più delle volte attraverso dei pontieri – non gli hanno permesso di guidare le negoziazioni.

Il rivale che temeva di più, però, Conte ce l’ha avuto all’interno del Movimento: Luigi Di Maio. Il presidente grillino covava un’idea su tutte, ovvero impedire il passaggio di Draghi al Quirinale. Il ministro degli Esteri, invece, remava in direzione diametralmente opposta. E non è finita qui: nel gruppo che dall’alleanza con il Pd ha sicuramente assimilato il correntismo, c’era anche chi, come Federico D’Incà, spingeva per un Mattarella bis.

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Enrico Letta, primus inter pares nel Pd

Sarà contento, Andrea Orlando, della riconferma di Mattarella al Colle. Forse l’unico capo del Pd sinceramente felice: nessuno come lui, in questi giorni, cercava di convincere i suoi compagni che un secondo mandato, allo stato dell’arte, era l’ipotesi migliore da perseguire. Un altro folto gruppo di delegati Dem, invece, ha creduto davvero che Pier Ferdinando Casini – molto amico di Dario Franceschini – potesse farcela. Oltre alla stima per l’ex democristiano, diversi parlamentari segnalavano ai colleghi i rischi di un passaggio diretto di Draghi al Quirinale e l’inopportunità costituzionale di chiedere a Mattarella di replicare.

La frammentata galassia del Pd si è ritrovata straordinariamente unita un unico giorno, martedì 25 gennaio. I giornali parlavano di ingerenze di Palazzo Chigi nelle trattative tra i partiti per il Colle, un fronte compatto di no a Draghi si è sollevato tra le file dei Dem. Peccato che il presidente del Consiglio era la scommessa quirinalizia su cui puntava proprio il segretario Enrico Letta. Sarà inevitabile, adesso, avviare una fase congressuale nel partito. Qualche senatore la chiama già «fase processuale» per Letta.

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Matteo Salvini, il leader incompiuto del centrodestra

Aveva in mano le carte per riuscire a essere il kingmaker dell’operazione. O meglio, ha creduto di averle, finché Giorgia Meloni non l’ha spinto dritto verso il suicidio politico: Matteo Salvini si è dovuto fare carico di portare una candidatura caratterizzante del centrodestra. Un po’ per le ambizioni personali di Elisabetta Casellati, un po’ perché si è creduto – ma giusto per un attimo – che sarebbero arrivati dal centro e dal campo progressista alcuni voti per la seconda carica dello Stato. Invece Casellati è stata usata come pedina per la carica dello stallo. E Matteo Salvini, investito dal ruolo di negoziatore del centrodestra, è stato portato a un fallimento previsto. Mentre Fratelli d’Italia dimostrava la sua compattezza, la coalizione guidata dalla Lega, invece, emergeva con le ossa rotte dal quarto scrutinio.

«Salvini, caput», diceva un leghista, durante lo spoglio, nel cortile del Transatlantico. I malumori sono arrivati alle orecchie del leader del partito più gerarchico della maggioranza. Un partito che, inevitabilmente, mostrava a tutti le sue fessure. Forza Italia ha disconosciuto Salvini come negoziatore. Lui ha tentato di tutto per portare un suo nome sul soglio quirinalizio. Anche oggi pare che avrebbe tentato un accordo in extremis su Marta Cartabia. Ma niente. E alla fine è corso a intestarsi l’investitura di Mattarella, la soluzione più facile. E che dimostra l’incompiutezza del leader del partito più forte, nella coalizione più forte, e che non è stato in grado di gestire soluzioni più difficili.

Renzi e Berlusconi, il centro ininfluente

Matteo Renzi, questa volta, non è riuscito a essere decisivo come sette anni prima e come nella nascita di due governi su tre in questa legislatura. La mossa del cavallo era quella di Pier Ferdinando Casini. Riuscita la sera del terzo scrutinio e disinnescata la mattina del quarto perché Salvini ha avuto paura di scontentare il suo elettorato. Ci ha riprovato oggi, sabato 29 gennaio, ma a parte l’ok di Forza Italia, di buona parte dei centristi e di metà Partito democratico, l’ex presidente della Camera non è decollato negli entusiasmi. Anche Silvio Berlusconi, in un moto di orgoglio, era riuscito a staccarsi dall’egemonizzante Salvini e a dar il via libera ai suoi per trattare su Casini.

Forse troppo tardi, perché 387 grandi elettori stavano scrivendo sulla scheda del settimo scrutinio il nome di Mattarella. Stando a una lettura superficiale, si potrebbe dire che, alla fine dei giochi quirinalizi, nessuno abbia vinto, ma che Meloni abbia senz’altro perso: Fratelli d’Italia è stato l’unico partito a contrastare, sin dall’inizio, l’ipotesi di un Mattarella bis. La verità, invece, è che in un giorno in cui perdono tutti, l’unica vittoria risiede proprio nella sua estrema coerenza. Adesso, Meloni può raccogliere a mani libere il consenso di chi si oppone a questa classe dirigente.

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