«Una nave internazionale per evacuare i soldati del Battaglione dall’acciaieria Azovstal»

Il filosofo francese Bernard Henry Lévy intervista il comandante Samoilenko, uno degli ultimi asserragliati nell’Azovstal. Poi lancia l’idea di una soluzione diplomatica

Ilya Samoilenko, 27 anni, è il comandante in seconda dell’ultimo reparto di combattenti che ancora resiste nel complesso siderurgico di Azovstal, a Mariupol. L’acciaieria è stata bombardata di nuovo ieri e Kiev ha accusato Mosca di aver utilizzato bombe a grappolo. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha detto di nuovo che sono in corso negoziati per permettere ai militari del Battaglione Azov di uscire. In un’intervista rilasciata al filosofo e saggista francese Bernard Henry Lévy e pubblicata da Repubblica Samoilenko parla della situazione nell’acciaieria, delle intenzioni dei russi e dell’idea di una nave guidata da una forza internazionale per tirare fuori i soldati.


I soldati russi e l’assedio

Samoilenko racconta dice che negli ultimi giorni la Russia sta intensificando gli attacchi sull’acciaieria via terra con truppe speciali, con soldati «dotati di armamento tecnologicamente avanzato, di cui noi non disponiamo più. Noi però siamo sempre in movimento, conosciamo come le nostre tasche anche i meandri più reconditi, i tunnel, le camere blindate e le corazzature dei dodici chilometri quadrati su cui si estende il complesso siderurgico. È il nostro territorio. Non ci installiamo mai del tutto nelle postazioni». Il problema maggiore per il Battaglione Azov sono attualmente «le munizioni. Ne abbiamo per resistere una settimana, forse due, poi basta. Stessa cosa per i viveri e l’acqua. E zero armi pesanti ormai, zero tank, zero mortai, zero blindati. Zero. In realtà nessuno, nemmeno noi, prevedeva che i combattimenti sarebbero durati così a lungo».


Poi Samolilenko spiega a Lévy perché i russi non li lasciano semplicemente morire di fame: «Perché loro vogliono ammazzarci. Tutti. Uno per uno. Abbiamo avuto casi di compagni catturati. Li hanno giustiziati, in barba alle regole di guerra. Le madri di quei compagni hanno ricevuto la foto dell’assassinio, spedita direttamente dal cellulare dei loro figli. Ce n’è una di un compagno che soffoca in mezzo a un campo di segale, con la testa dentro un sacchetto di plastica». E questo perché «la nostra resistenza li manda fuori di testa. Se non ci fossimo ancora noi, il 9 maggio avrebbero proclamato la loro vittoria su Mariupol. Siamo il sassolino nella scarpa di Putin. La lisca che gli è rimasta conficcata in gola. Un simbolo che vuole annientare».

Lo scetticismo sull’esercito

Nel colloquio Samoilenko tradisce un certo scetticismo sulla vicinanza dell’esercito ucraino e del suo stato maggiore e sulle intenzioni di trattare di Zelensky: «Ci faranno un bel monumento!», dice quando Lévy gli chiede in che modo potrebbero trovare il modo di tirarli fuori di lì. Ma d’altronde non sembra essere disponibile a un’azione di salvataggio: «Non se parla nemmeno. Anche se esistesse questa possibilità, preferiamo morire piuttosto che subire l’umiliazione di una resa. La parola resa non esiste, nel nostro dizionario». Ma risponde alle accuse di nazismo: «Non creda alla propaganda russa. Il battaglione è cambiato, ha purgato i propri ranghi dal passato oscuro. Il nostro unico radicalismo, oggi, è la volontà di difendere in modo radicale l’Ucraina».

Infine Lévy parla di un possibile piano per l’evacuazione dall’acciaieria che potrebbe avere come garante la Francia. Sulla falsariga di quanto avvenuto a Beirut nell’agosto 1982, quando i guerriglieri palestinesi (tra cui Arafat) vennero evacuati dal Libano. In questo caso dovrebbe arrivare una nave scortata da una forza internazionale: «Ciò che è stato fatto per i palestinesi perché non dovremmo farlo per questi uomini schiettamente audaci, che stanno morendo per l’Europa nei sotterranei dell’Azovstal?». Nei giorni scorsi proprio Zelensky aveva parlato di «intermediari influenti» all’opera per una situazione diplomatica sull’acciaieria.

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