Omotransfobia, l’Osservatorio sulle discriminazioni: «Spesso la violenza nasce in famiglia, ancora difficile denunciare» – L’intervista

Parla la vicequestore Capaldo, responsabile della segreteria dell’Oscad, presso la polizia: «Le violenze anche dagli agenti? Vanno valutati i casi, ma sul tema dei diritti abbiamo formato quasi 40mila tra agenti e carabinieri”

Anche se una legge che li punisca specificamente ancora non c’è, la mappa italiana dei reati di omotransfobia, o di discriminazioni che non possono essere considerate reato, rimane allarmante. E la giornata internazionale per la lotta a questo genere di discriminazione, il 17 maggio, è una buona occasione per fare il punto. Le associazioni che raccolgono dati sono più d’una, ma i segnali vanno tutti nella medesima direzione. Ilga Europe, l’organizzazione che riunisce le principali associazioni per i diritti Lgbtq+ europee ha messo l’Italia al 33esimo posto su 49 paesi, in fondo alla classifica per quanto riguarda l’Europa occidentale. Il rapporto omofobia.org, cita 1487 denunce penalmente rilevanti da marzo 2021 ad aprile 2022, una su tre da giovanissimi, tra i 10 e i 20 anni, con un 58% del totale di vere e proprie aggressioni fisiche. Poi ci sono i dati Istat-Unar (Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali, che però da tempo si occupa in generale delle discriminazioni) che raccontano come 1 persona su 4, dopo essersi unita civilmente subisce svantaggi sul lavoro. In molti casi, la raccolta di informazioni e l’assistenza alle vittime viene realizzata in collaborazione con l’Oscad, l’osservatorio anti discriminazioni della Polizia di stato.


Foto Polizia di Stato | Francesca Romana Capaldo

La direttrice della segreteria di Oscad è Francesca Romana Capaldo. Capaldo, vice questore aggiunto, si è occupata per anni di violenza di genere (e per questo nel 2018 è stata nominata cavaliere dal presidente Mattarella), per poi passare all’Osservatorio.


Come nasce e a cosa serve questo osservatorio, dottoressa Capaldo?

«L’osservatorio sugli atti discriminatori è stato istituito nel 2010 per volontà dell’allora capo della Polizia, prefetto Manganelli. E’ l’osservatorio sul law enforcement italiano in tema di discriminazione, ci lavorano sia la Polizia sia i Carabinieri, e l’obiettivo è prevenire e contrastare i crimini di odio, attraverso la sensibilizzazione del personale e l’assistenza alle vittime. La formazione si focalizza sia sulla tematica dei diritti umani fondamentali, sia sul comprendere che tipo di supporto vada fornito a vittime di reati di odio, di per se in un particolare stato di vulnerabilità».

Cosa c’è di peculiare nel contrasto a questo tipo di reati dal punto di vista della Pubblica sicurezza?

«E’ molto difficile far emergere il sommerso, come accade anche per la violenza di genere. Lì per convincere le donne a denunciare era importante che fossero loro stesse ad acquisire consapevolezza. Anche in questo ambito c’è molto sommerso, e se in questi anni i numeri sono aumentati è soprattutto perché le vittime si fanno avanti più facilmente di quanto accadeva in passato. Noi abbiamo messo a disposizione una casella di posta elettronica dedicata, oscad@dcpc.interno.it, lanciamo spesso campagne di informazione e lavoriamo a stretto contatto con il centralino di Gayline. Le associazioni sono fondamentali per rompere il muro di omertà che accompagna alcune situazioni, oltre alla continua sensibilizzazione. E infatti abbiamo appena concluso una campagna in questo senso realizzata proprio durante l’Eurovision, con la collaborazione di alcuni artisti».

Raccogliete anche i dati?

«C’è un doppio monitoraggio. Noi ci occupiamo dei reati penali che hanno matrice discriminatoria, mentre per le discriminazioni che non costituiscono reati giriamo quanto raccolto all’Unar, Ufficio nazionale presso la Presidenza del Consiglio. Al momento i dati che abbiamo vanno dal 2010 al 2020 e, ovviamente, vengono poi distinti per categoria in relazione alle varie forme di discriminazioni, siano esse omotransfobiche, razziali, o contro persone disabili».

Sulla base della sua esperienza, tanto più che fino ad un anno fa si occupava di violenza di genere, come è cambiato il quadro negli ultimi anni?

«La mia impressione è che ci sia sempre più sensibilità su questi temi. Prima le segnalazioni erano minori, ora sono aumentate ma perché c’è maggiore sensibilizzazione e devo dire che molto ha aiutato la collaborazione con le associazioni, ad esempio l’affiancamento al centralino di Gayline. Anche sulla formazione degli operatori di polizia, che poi sono coloro che si interfacciano per primi alla vittima di questi crimini, la linea scelta è stata di non essere autoreferenziali ma di lavorare anche assieme a Rete Lenford (avvocati specializzati su questi temi) e Amnesty international, oltre a Gayline. E’ importante capire che le vittime di questi reati sono spesso doppiamente vittime. Prima all’interno del contesto familiare, e poi a all’esterno dove diventano bersagli da colpire per i cosiddetti target crime, i cui autori hanno in testa l’idea di mandare un messaggio alla comunità di appartenenza».

Perché contesto familiare, quanto spesso la mancata accettazione diventa vero e proprio crimine?

«Abbastanza spesso. Ed è anche diffuso il fenomeno della discriminazione multipla, con donne maltrattate sia per il genere, sia per le loro scelte sessuali. Abbiamo registrato vari casi di ragazze lesbiche, che subiscono maltrattamenti in famiglia, con genitori che non accettano i loro comportamenti sessuali, in qualche caso con vere e proprie aggressioni da parte dei genitori. In un caso la ragazza di cui ci siamo occupati ha subito un tentato investimento a parte del padre che voleva spaventarla e indurla a cambiare orientamento sessuale, per fare solo un esempio. In un diverso ambito ci accade anche per le donne disabili, in alcuni casi vittime di vere e proprie violenze sessuali».

In questi crimini quanto pesa la provenienza geografica e l’estrazione sociale?

«Sono fenomeni trasversali, anche qui c’è una similitudine con la violenza di genere: avviene in tutti i contesti, altissimi dal punto di vista economico e sociale, oppure molto poveri. Quello che può davvero cambiare tutto è la prevenzione, fare in modo che le cose non accadano, collaborando con tutti gli altri attori. Bisogna agire su cultura e consapevolezza».

Il rapporto Ilga Europe sulla situazione dei diritti Lgbtq+ in Europa, nel caso dell’Italia cita un episodio di violenza su donne trans avvenuto a Catania nel 2021 da parte di agenti della polizia.

«Non conosco la vicenda e credo che i casi penali, anche sulle forze dell’ordine, vadano valutati fascicoli alla mano, volta per volta. Posso dire però che abbiamo in atto una importante opera di formazione su tutti i diritti umani e ci confrontiamo continuamente anche con le associazioni che se ne occupano specificamente. Fino ad oggi abbiamo formato 39mila operatori, tra chi entra in polizia, funzionari e militari dei Carabinieri».

Quanto pesa che non esista una legge specifica contro i crimini omotransfobici?

«Noi siamo tecnici, lavoriamo con la normativa che abbiamo. Alle vittime di odio omotransfobico, la nostra normativa fornisce una tutela rafforzata, sulla base delle direttive europee recepite nel nostro ordinamento».

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