Il viaggio, l’ignoto, i mostri. Rancore: «Faccio musica per scoprire mondi, e me stesso» – L’intervista

A quattro anni da «Musica per bambini», in occasione dell’uscita del nuovo album «Xenoverso», l’artista racconta a Open il suo viaggio tra i versi, mondi interiori, realtà e domande che non trovano sempre una risposta

«Sono contento», ha detto Rancore poco dopo essere entrato in redazione per questa intervista. Una frase che destabilizza, specialmente se pronunciata da chi ha un nome d’arte che non serve spiegare. Un po’ celati sotto il cappellino, si intravedono occhi affamati di chi ha tanto da raccontare. Tarek Iurcich, in arte Rancore, classe 1989, a quattro anni dall’uscita di Musica per bambini, è tornato con un nuovo album, Xenoverso. A Open, Rancore ha raccontato cos’ha fatto in questi ultimi anni, restando solo in apparenza fermo: «Nel mezzo ho suonato, ho fatto collaborazioni, due volte Sanremo». La prima nel 2019 con Daniele Silvestri con Argentovivo, la seconda in solitaria nel 2020 con Eden, diventando il primo rapper a vincere il premio per il miglior testo nella storia del Festival.


Non a caso, è considerato uno dei migliori parolieri e autori italiani contemporanei: solo in apparenza semplice, ogni sua parola non è mai detta o usata per caso. In questi anni, Rancore non ha smesso di scrivere il suo nuovo album, Xenoverso, prodotto da Universal. «Un disco – ci racconta – che ha necessitato di tempo per poter essere pensato, ragionato, scritto, elaborato in tutte le sue sfumature, sia quelle musicali e testuali, che sono le più importanti, fino ad arrivare a quelle visive». Nella copia fisica dell’album, oltre al classico booklet, ci sono veramente delle figurine da attaccare su un album, rigorosamente da scambiarsi ai prossimi concerti. Un modo fanciullesco per tornare a stare insieme e a giocare. 


Ma partiamo dagli inizi: come sei cambiato da Giovani Artisti per arrivare a Xenoverso?

«Io credo che la musica serva a scoprire la realtà. Ogni volta che scrivi qualcosa di nuovo è un po’ come nei videogiochi, quando sblocchi una nuova zona della città. In questo caso sblocchi una nuova zona di te stesso. Ho iniziato a scrivere quando avevo 13 anni, il primo disco è uscito quando ne avevo 16. Sono partito dalle cose che mi circondavano, quindi il Tufello, il quartiere, le amicizie, la mia vita quotidiana».

Anche la scuola?

«La scuola era il luogo dove spesso scrivevo. Durante la lezione, di nascosto, avevo un quaderno che aveva un upside down e da una parte c’era la materia e dall’altra, girandolo al contrario, c’erano i testi».

E come sei arrivato a Xenoverso?

«Andando avanti con i dischi, ho scoperto altri continenti che avevo dentro. Così, pian piano, è come se fossi uscito dal quartiere, fuori dall’Italia, dal mio presente, anche dal pianeta, o anche dall’universo. E questo è il potere della musica: è un mezzo che ti permette di andare sempre più lontano». 

Ma cos’è lo Xenoverso?

«Lo Xenoverso è tutto ciò che non conosciamo. Nel momento in cui non trovo qualcosa, potrebbe essere finita nello Xenoverso. Non trovo le chiavi di casa? Potrebbero essere finite nello Xenoverso! Dietro l’angolo che non ho ancora girato c’è Xenoverso. Ma una volta girato l’angolo, quello che trovo diventa Universo, perché l’ho vissuto».

Che rapporto c’è tra Universo e Xenoverso?

«C’è un’interazione molto spesso è conflittuale. Non a caso molto spesso abbiamo paura di ciò che è sconosciuto, del diverso. In questo immaginario che ho creato c’è una guerra tra i versi. Il conflitto porta conseguenze, fino a che un giorno non si riuscirà più a trovare un equilibrio. Provo a esplorare i limiti dello spazio delle cose che non si conoscono, senza distruggerle. Molto spesso per scoprire certe cose, si finisce col distruggerle».

Chi è il protagonista del disco?

«È un cronosurfista, cioè un messaggero tra Universo e Xenoverso, che porta le lettere tra i versi. Di fatto i cronosurfisti sono coloro che sostengono la pace tra i versi, e quindi l’equilibrio che passa attraverso la comunicazione».

Il lavoro per Xenoverso è iniziato però prima, già all’epoca di Musica per bambini, il tuo penultimo album…

«Sì, la canzone Xenoverso è stata scritta nel 2015, quindi prima dell’uscita del precedente album. Ma anche Arakno 2100, Lontano 2036 sono canzoni scritte ancor prima di Sangue di drago, per esempio. Se uno prende in mano la copia fisica di Musica per bambini, scopre che a fianco di Sangue di Drago e Quando piove ci sono due pergamene. È una cosa che non ho mai svelato nel corso di tutti questi anni, ma sapevo già che avrei avuto le tracce 5 e 9 di Xenoverso vuote, mettendoci dei dialoghi, non canzoni».

Come mai questa scelta? 

«È un gioco per rompere il tempo. Una rottura “fisica”, con questi piccoli o grandi enigmi che si trovano tra un disco e l’altro. Ma anche all’interno delle canzoni, perché molti brani hanno un ritorno tra passato e futuro».

È stato un percorso più difficile rispetto a quello di Musica per bambini?

«È stato più complesso sia a livello spirituale, sia pratico. Sarà che esce dopo due anni che sono stati assurdi per tutti… Questa bassa energia, e con cui ci siamo influenzati l’un l’altro, ha complicato la scrittura di un disco di per sé già così complesso. Mi son sentito un po’ un Dante in una specie di Divina commedia o, in questo caso, Umana tragedia». 

Nello Xenoverso esiste il confine?

«Una volta concepito lo Xenoverso e accettata l’esistenza di Universo, ho voluto trovare un luogo che unisse questi due mondi, ed è una realtà di confine che ho identificato in luoghi quotidiani o naturali. Prendiamo una spiaggia, dove sabbia e mare si uniscono. C’è la sabbia, dove possiamo camminare, che è universo. E poi c’è uno Xenoverso, con il mare e l’abisso, che possono mettere anche un po’ paura».

Il cappello che usi sempre è una realtà di confine?

«Potrebbe esserlo, certo. Perché dentro la nostra testa è chiuso l’Universo, mentre fuori c’è ciò che non conosciamo e poi entra dentro di noi. Il cappello, come anche il cappuccio, raccoglie le idee e le protegge. Sono tutti simboli di riconoscimento, per chi lo vuole vedere, ma anche un modo per proteggersi».

E il cappello quale parte di te serve a proteggere?

«Quella più intima, la fanciullezza».

Non serve a proteggere anche un po’ la fantasia?

«In un certo senso sì. In un mondo come quello in cui viviamo, dove la fantasia viene un po’ uccisa, servono delle armature». 

A proposito di fantasia e creature leggendarie, chi sono i mutoid?

«I mutoid sono una comunità che usa materiali di riciclo, rottami, scarti, per ricostruire dei robot o delle statue. Oppure danno una nuova funzione a questi “scarti”. Fa parte di un immaginario futuristico, ma anche di un presente sabotato: utilizzare delle cose per crearne altre è un meccanismo di sabotaggio della realtà. Se si rompe la funzione di una cosa, gliene viene data un’altra».

Della loro leggenda parli in Arakno 2100. Che ruolo hanno?

«Queste creature leggendarie, assieme a un gruppo di hacker, costruiscono Arakno, che è un ragno robotico costruito con i materiali militari di una guerra che c’è stata prima, e che racconto anche nei primi due capitoli della trilogia, Lontano 2036 e X Agosto 2048».

E chi è Arakno?

«Il mondo dispotico che ho immaginato nel 2100 è controllato da un grande telaio, il cattivo di questa storia. È una rete che “governa” tutto il mondo. L’unico che può romperla è un elemento che conosce i segreti di come si fa una rete e i segreti del ragno: è Arakno e combatterà questa rivolta che io ho chiamato neoluddista. C’è questo parallelismo tra i telai del 1800 e il grande telaio del 2100». 

Quanto sono importanti per te le parole?

«Sono i recipienti in cui abbiamo inserito le cose. Il mondo potrebbe esistere anche senza le parole. Siamo noi ad aver diviso l’albero dalla radice, altrimenti sarebbero una cosa sola. Più parole conosci, più ci entri dentro, più riesci a romperle e ricomporle, e più esplori le cose, le conosci e le accogli». 

Alcune parole possono diventare pericolose.

«La parola è anche una sovrastruttura e può essere una grande libertà se usata bene, ma anche un grande limite se alla fine ci credi troppo. Va compresa a fondo affinché si possa comprendere meglio la reale struttura delle cose, e dunque la natura del reale».

Nell’album c’è un brano intitolato Le rime (Gara fra 507 parole). Come si è sviluppata? 

«Noi viviamo in un mondo a tre dimensioni, ma ne possiamo sognare altre. Ne Le rime però c’è un mondo a due dimensioni e il brano si chiede: E se ci fosse un mondo a due dimensioni che sogna noi, che vuole arrivare a noi? E se questo mondo a due dimensioni fosse un foglio di carta su cui lo scrittore sta scrivendo e le parole facessero una corsa per essere la parola che più ti rimane in testa quando tu poi leggi il foglio o ascolti la canzone? È come se l’autore, che poi sarei io, cascasse nel foglio e vedesse questa maratona di parole, che nel rap è proprio una corsa». 

E su cosa si interroga?

«Dentro tutte queste rime c’è una società, ci sono dei sogni: è un mondo uguale al nostro, ma piatto, bidimensionale. Ed essendo un mondo vero e proprio ci sono leggi e magari dei crimini, con criminali che prendono sillabe e le spacciano in giro. Da lì nasce anche il brano Guardie e Ladri, un mondo a due dimensioni interpretato dal punto di vista del criminale, che vende pezzi di canzoni. È uno dei tanti aspetti che affronto in questo disco per spiegare quello che è inspiegabile: mondi che noi non possiamo toccare, vedere, ma che possiamo comunque ipotizzare. Già che li possiamo ipotizzare e pensare significa che da qualche parte esistono. Probabilmente nello Xenoverso».

Nell’album le parole vengono usate anche come boutade, in modo ironico, tipo in Ignoranze funebri. Ti va di raccontarcela?

«Ignoranze funebri è uno dei pezzi più politici che io abbia mai scritto. Parla dell’Italia 2021 per come la conosciamo. Alla base c’è l’idea per cui le cose che non conosciamo – e che non vogliamo conoscere, preferendo rimanere ignoranti – potrebbero essere letali».  

In Musica per bambini, con Arlecchino sembrava però esserci una rappresentazione di un’unione, no?

«Sì, Arlecchino parlava di un’Italia diversa da quella del 2021, e di un’epoca in cui si parla dell’Italia intesa come ciò che poteva essere, più legata alla cultura italiana, alle correnti artistiche e letterarie. Arlecchino è simbolo di un’Italia che ancora si sta unendo, mentre in Ignoranze funebri parlo della cultura italiana, della cronaca, di quello che la quotidianità del nostro Paese ti porta a vivere, ma anche di alcuni pezzettini horror della storia d’Italia». 

In definitiva, com’è stato questo viaggio nello Xenoverso? 

«Ho conosciuto delle versioni di me che da bambino non mi sarei aspettato di conoscere, forse neanche qualche anno fa. Guardarmi allo specchio crea una divisione dentro di me: è una cosa che tutti dovremmo evitare. Ma, come ho detto prima, ogni avventura porta a grandi esperienze ma anche a grandi pericoli. Il pericolo è stato quello di aver incontrato il cattivo di tutta questa storia, che poi sarei io, in una versione xenoversata. Tutto questo mi ha permesso di affrontare diverse versioni di me e, affrontando le cose, si cresce un po’».

L’album si apre con Ombra, in cui ripeti “Sono io, sono io”, e si conclude con Io non sono io. Insomma, gli antipodi. 

«La parola “Io” è un termine che dovremmo usare un po’ meno, perché ci dà l’illusione di sapere chi siamo, quando invece chi siamo deve essere qualcosa che cambia continuamente. Ogni volta che dici la parola “Io” sei costretto ad afferrare quel concetto, finché magari non te ne convinci. Credo sia giusto non darsi troppe convinzioni su se stessi».

Sulla copertina dell’album c’è una tua foto da bambino, che si ricollega al leitmotiv del bambino con la freccia nel bosco contro il mostro. Secondo te, quel bambino, sarebbe felice del Tarek di oggi?

«Abbastanza. Non so se quel bambino era convinto di uccidere il mostro, o pensava che, arrivato a questo punto, il mostro sarebbe dovuto essere già morto».

Però ci stai provando, no?

«Certo, ci sto provando da allora. Il mostro ancora c’è, ma ovviamente rispetto a prima ha più paura di quel bambino, perché ora sono cresciuto. Magari uno non ci pensa sempre, ma anche il mostro ha paura. La lotta continua, con le frecce che ognuno di noi lancia tutti i giorni per sconfiggere le paure e il senso di inquietudine, e creare un equilibrio tra quel che conosce e quel che non conosce, cercando di riempire con un po’ di fantasia questa realtà, creando una pace tra i versi».

Riprese video: Antonio Di Noto
Grafiche e montaggio video: Vincenzo Monaco

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