Si fa quasi assordante il coro di voci che sale dalle più varie realtà del paese, «Draghi resta». Come una sorta di peronismo inconsapevole, che aggira il sistema delle forze politiche e chiama l’unica figura che dai partiti e dal parlamento è fuori, anzi sopra, perché lì lo ha voluto mettere un anno e mezzo fa il capo dello stato per evitare il collasso della legislatura, alla guida di un governo di tutti, o quasi.
Quanto può fare breccia questo coro sulle decisioni di Draghi? Chi lo conosce bene risponde «poco». Perché il premier sa che la condizione venuta meno, tanto da indurlo alle dimissioni, l’appoggio del M5s, non è certo ripristinabile. Le durissime parole pronunciate dalla capogruppo al senato Castellone la scorsa settimana in sede di dichiarazione di voto sul dl Aiuti non sono mai state corrette o attenuate da Conte, che anzi ancora ieri diceva di aspettare «risposte da Draghi».
E allora più realisticamente chi vuole cercare di riesumare la maggioranza punta su una scissione ulteriore nel gruppo 5 stelle della Camera (l’operazione Crippa di cui si parla da ormai più di 24 ore). Ma sarebbe una fictio iuris, far finta che quello a Montecitorio sia il «vero» gruppo M5s, e invece quello al Senato, tutto o quasi composto di irriducibili, una sorta di corrente degenerata. È peraltro a questa operazione che si aggrappa Enrico Letta, visto stamattina uscire da Palazzo Chigi di buon’ora da un cronista de Il Foglio. Un terreno ben più stretto di quel «campo largo» che sembra ormai bruciato. Ma se bastasse a tenere in vita governo e legislatura sarebbe benedetto dal leader Pd.
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