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Francia e Germania vogliono un nuovo piano Ue di aiuti all’industria. Ma nel 2022 l’80% delle risorse è finito proprio a loro

13 Gennaio 2023 - 16:09 Simone Disegni
Parigi e Berlino aumentano il pressing sulla Commissione per una risposta dello stesso tono al piano di sussidi Usa. Spagna e Svezia protestano. E l'Italia?

Per competere alla pari, o quasi, con gli altri colossi globali – Usa e Cina in testa – l’Unione europea rischia seriamente di dimenticarsi di applicare lo stesso principio fondamentale – competere alla pari – al suo interno. Ad indicare il rischio maggiore alle viste per la coesione europea nel 2023 sono i dati appena comunicati dalla Commissione Ue sugli aiuti di Stato concessi nell’ultimo anno: che vedono Francia e Germania, non a caso i due Paesi in prima fila nel chiedere un nuovo maxi-piano di aiuti all’industria, cannibalizzare le risorse. Agli altri 25 Stati membri – Italia compresa – restano le briciole. Per capire il legame tra dati di ieri e progetto di domani, serve un piccolo passo indietro. Anzi due.

C’erano una volta gli aiuti di Stato

Da quando, trent’anni fa esatti, è stato completato il mercato unico europeo (Trattato di Maastricht, 1993), l’Unione europea ha messo una pietra tombale sopra la pratica degli aiuti di Stato – ossia quei contributi “selettivi” forniti dai governi ad aziende del loro Paese. L’Italia ne sa qualcosa, anzi parecchio – basti pensare ai decenni di generosi quanto infruttiferi finanziamenti a colossi come Fiat o Alitalia – in nome della protezione di aziende strategiche e posti di lavoro, e a discapito del debito pubblico. Ma anche altri grandi Paesi europei, come la Francia, hanno dovuto dal ’93 rinunciare a una ghiotta tentazione. La ragione di teoria economica non fa una piega, ed è pensata per proteggere in primis i Paesi più piccoli: nel momento in cui si entra a far parte di un mercato unico continentale, quegli aiuti emergono in modo lampante come distorsioni dell’equa concorrenza. Ma dal 2020, con lo scoppio della pandemia, tutte le certezze europee hanno vacillato. Per sostenere sistemi economici allo schianto con i lockdown, il 19 marzo 2020 l’Ue ha decretato la sospensione del divieto di elargire aiuti di Stato. Una delle scelte chiave che hanno permesso a migliaia di aziende europee di restare a galla, e all’economia di ripartire passata la fase più funesta dei lockdown. L’altra, come noto, è stata l’adozione del maxi-piano di aiuti tramite debito comune del Next Generation EU, che ha generato i piani nazionali di ripresa e resilienza.

L’appetito vien mangiando

Ma il nuovo decennio sembra fatto apposto per porre l’Ue di fronte a sfide politico-economiche esistenziali. Prima che il Quadro temporaneo sugli aiuti di Stato terminasse, è arrivata l’invasione russa dell’Ucraina, col suo potenziale impatto economico altrettanto disastroso, a consigliare ai Paesi europei di prorogare fino a dicembre 2023 almeno una parte delle esenzioni che permettono ai governi di dare sussidi ad hoc a loro imprese. Ora, in un quadro internazionale profondamente cambiato, le cancellerie europee – Francia e Germania in primis – hanno messo nei radar un altro pericolo mortale, per fortuna indiretto, alla stabilità europea: la concorrenza sleale di Cina e Stati Uniti. Che Pechino sostenga generosamente i suoi campioni nazionali in settori strategici non è una novità. Ma nell’anno del rilancio della solidarietà transatlantica sul piano militare ed energetico, il piano di aiuti della presidenza-Biden alle imprese americane è stato vissuto dagli europei come un mezzo tradimento.

L’Inflation Reduction Act (Ira), appena entrato in vigore, promette di finanziare con miliardi di dollari i produttori americani di tecnologie del futuro, come batterie e auto elettriche. Risultato: Parigi in primis, e Berlino a rimorchio, vogliono una risposta europea all’altezza della situazione per evitare il “declino industriale“, come ebbe a dire il ministro delle Finanze francese Bruno Lemaire in un’intervista al Corriere. Che forma e in che strumenti dovrà tradursi questa risposta è il tema al centro di pressioni e negoziati europei in queste settimane. Ma i due player di maggior peso dell’Unione, Francia e Germania, sono in pressing sulla Commissione perché il nuovo piano preveda la prosecuzione della sospensione degli aiuti di Stato, per lo meno per permettere investimenti cospicui in “campioni europei” nelle nuove tecnologie emergenti in grado di reggere la competizione con Usa e Cina. Ragionamento che non farebbe una piega. Almeno sino a quando non si guarda alla possibile destinazione di quei fondi.

La grande abbuffata

Secondo i dati diffusi dalla Commissione, nel 2022 l’Ue ha autorizzato 170 istanze di aiuti di Stato, per un importo complessivo monstre di 540,2 miliardi di euro. Ma la loro distribuzione geografica è tutt’altro che bilanciata. Quasi la metà di quei fondi sono stati utilizzati a sostegno delle proprie imprese dalla Germania. Un altro 30% scarso è stato assorbito tramite il loro governo dalle imprese francesi. Per un totale finito negli ingranaggi del motore franco-tedesco vicino all’80%. Per gli altri 25 Stati membri, il resto delle briciole; l’Italia, terza economia dell’Eurozona, ha potuto utilizzare appena il 4,7% del totale dei fondi approvati. Ad impedire un uso più massiccio del “rilassamento” del quadro sugli aiuti di Stato sembra essere la difficoltà per governi con minor potenza di fuoco finanziaria di trarne beneficio. A far la parte del leone restano così solo i due grandi. Che vedono infatti di particolare buon occhio un ulteriore rilassamento delle regole sui contributi per l’industria.

C’è chi dice no

Si capisce meglio, in questa luce, l’opposizione di diversi Stati di taglia o peso minore al pressing franco-tedesco sulla Commissione perché anche il nuovo piano per la competitività includa l’annacquamento della normativa sugli aiuti di Stato. Mentre in Italia il tema resta fuori dai radar del dibattito pubblico, a dare filo da torcere all’asse Parigi-Berlino potrebbe essere la Svezia, che dal 1° gennaio guida per sei mesi i lavori del Consiglio Ue. Poco prima della pausa natalizia, la Confederazione delle imprese di Stoccolma ha pubblicato una presa di posizione nettamente contraria a questa prospettiva. Nella sua risposta al processo di consultazione lanciato dalla Commissione, la Confindustria svedese scrive che «non può ritenersi giustificato apportare ulteriori cambiamenti alle regole sugli aiuti di Stato a causa dell’Ira: gli Stati membri forniscono già somme sostanziose di aiuti di Stato e non è chiaro in che modo l’Ira sarà implementato». Aggiungere altro denaro pubblico per contributi selettivi, conclude l’associazione, non farebbe che incrementare le distorsioni nella competizione dentro al mercato unico e, nel lungo termine, «rendere meno dinamico e competitivo il clima di business in Europa». Preoccupazioni del tutto simili a quelle espresse dal governo spagnolo, che nel suo parere ha chiesto di non battere la strada di ulteriori aiuti di Stato, che costituirebbero «una minaccia al terreno equo di concorrenza». La partita è aperta. A patto di esserne consapevoli.

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