Acquisti comuni Ue per inviare armi all’Ucraina? Gaiani: «Piano sbagliato e irrealistico. La soluzione sta nell’Est Europa» – L’intervista

Secondo l’analista, i Paesi europei rischiano al contempo di lasciare sguarniti i propri arsenali e di consegnare armi all’Ucraina troppo tardi

Due miliardi di euro. È quanto l’Unione europea si appresta a mettere sul piatto per sostenere l’invio di armi all’Ucraina, anche tramite acquisti comuni. Un miliardo sarà destinato a rimborsare – tramite la European Peace Facility – l’invio di munizioni di artiglieria da parte dei Paesi Ue. Un altro servirà a sostenere gli ordini congiunti per l’acquisto di nuove munizioni tramite la “procedura veloce” messa in campo dall’Agenzia europea di difesa. Così l’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell ha riassunto il piano Ue presentato oggi ai ministri della Difesa dei 27 riuniti a Stoccolma. Un piano destinato, nelle intenzioni, a fornire rapidamente all’Ucraina il materiale bellico di cui ha bisogno per respingere gli assalti russi, quindi a rimpinguare le scorte degli arsenali europei così da “aumentare la capacità della nostra industria della difesa”. Un piano che non è il più efficace né quello con le maggiori chance di essere realisticamente eseguito, obietta in quest’intervista Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa. Che ai decisori europei e occidentali suggerisce un altro piano, più efficace e realistico, per raggiungere i due obiettivi imprescindibili da raggiungere: sostenere concretamente e rapidamente lo sforzo militare ucraino ed evitare al contempo di lasciare sguarniti i già ridotti all’osso arsenali europei. 


L’Ue sembra muoversi in direzione di acquisti congiunti di munizioni – sul modello di quanto fatto negli scorsi anni per i vaccini – per sostenere lo sforzo bellico ucraino. È una buona idea? È il piano migliore per far arrivare prima o in modo più efficiente le armi che servono a Kiev?


«Dobbiamo partire dal presupposto che le aziende del comparto di difesa producono sulla base delle commesse che ricevono e in base alle proprie capacità di produzione. Quello europee sono strutturate, ancor più di quelle americane, rispetto alle esigenze degli ultimi anni dei rispettivi Paesi – ossia per fornire armi in tempi abbastanza lunghi. Qui sta il problema strutturale di fondo. Gli ucraini avanzano certamente cifre “ambiziose”, ma la loro stima è che necessitino di 250mila proiettili al mese. Questa è una guerra convenzionale combattuta su vasta scala che brucia mezzi e munizioni in quantità superiore non solo alle scorte dei Paesi europei, ma persino di quelle Usa. Gli eserciti Ue hanno ridotto negli anni gli organici – sia in termini di truppe che di mezzi – perché dopo l’11 settembre e le primavere arabe le forze armate occidentali sono entrate in modalità di gestione di conflitti anti-insurrezionali: poche centinaia di uomini in teatri distanti. Gli Usa, tanto per capirci, sparavano durante gli anni della missione in Afghanistan circa 30 colpi di artiglieria al giorno. Qui siamo di fronte a una guerra in cui vengono bruciati migliaia di colpi al giorno. Se gli Usa producono 15mila proiettili di artiglieria al mese, l’Ucraina si stima ne usi 5-6mila al giorno. E la Russia verosimilmente il doppio o il triplo». 

Non a caso oggi il Commissario Ue al mercato interno Breton chiede apertamente di “cambiare ritmo” dando vita a un’economia di guerra.

«Nel maggio scorso un rapporto alla commissione Difesa del Senato francese rivelò che l’esercito di Parigi avrebbe avuto munizioni per 5 giorni in uno scenario di guerra simile. La Germania sarebbe autonoma per 2 giorni. E gli altri sono messi ancora peggio. Dunque pensare a una produzione europea ha un senso in termini finanziari, non nel breve periodo in termini tecnici. Ma se decidiamo di finanziare il riarmo dell’Ucraina i tempi devono essere stretti, mentre riorganizzare le capacità di difesa richiede tempi lunghi, anche per far fronte a esigenze assai concrete. Se oggi hai uno stabilimento domani devi averne cinque. Vanno reperite, e formate, le necessarie maestranze. Tutto ciò non si può fare in pochi mesi, né con pochi soldi. E non mi pare oggi ci siano grandi risorse a disposizione considerate le altre crisi e priorità per i governi e le opinione pubbliche europee. Anche perché i costi di produzione delle industrie belliche nell’ultimo anno sono esplosi. La stessa Germania già a ottobre si è accorta che i famosi 100 miliardi annunciati da Olaf Scholz all’indomani dell’attacco russo non bastavano a coprire lo sforzo necessario. In questo senso dall’altra parte la Russia è avvantaggiata perché l’energia e le materie prime le ha in casa. E l’industria bellica russa in modalità produzione di guerra lo è già da maggio-giugno scorso: tre turni da 8 ore nelle aziende del settore, assunzione di personale specializzato con ottimi stipendi e benefit, tra cui la garanzia di non essere mai chiamati in servizio».

Uno sforzo impossibile da pareggiare per i Paesi europei nel breve periodo.

«Proprio così. E che si scontra con le prevedibili obiezioni degli stessi ambienti militari dei Paesi europei. Svuotare i nostri arsenali per rifornire l’Ucraina e ri-riempirli domani? Forse qualche politico si azzarderebbe a tentare questa strada, ma nessuno stratega militare nazionale – col vento geopolitico che corre – accetterebbe a cuor leggero. Anche perché i margini di manovra dopo un anno di cessione di materiale militare all’Ucraina sono per tutti i Paesi Ue – stante le attuali capacità produttive – molto stretti».

Quale sarebbe allora la strategia più razionale ed efficace? 

«Va benissimo iniziare ad investire in vista del dopoguerra, che speriamo arrivi già nel corso del 2023, per riconvertire le forze armate ucraine in un moderno esercito a standard Nato/occidentale. Ma se vogliamo raggiungere l’obiettivo politico che ci si è posti – quello di sostenere ora l’Ucraina perché resista alle offensive russe e magari ribalti il destino della guerra – il piano più sensato allora è un altro. La soluzione più rapida ed efficiente è investire sull’industria della difesa dei Paesi dell’Est Europa, per far produrre lì – dove ci sono fabbriche già in grado di farlo – ampie scorte di munizioni di tipo russo-sovietico, che l’esercito ucraino è in grado di utilizzare nell’immediato. D’altra parte non è un segreto che gli angloamericani già stanno cercando di comprare dove ci sono proprio armamenti di tipo russo-sovietico per girarli all’Ucraina, scambiandoli con prodotti militari occidentali: è già successo in Marocco, potrebbe succedere presto in Iraq. A che serve produrre per gli ucraini munizioni o mezzi che non ricevono in tempo utile? Meglio dare loro materiale disponibile rapidamente e che sanno utilizzare senza dover fare formazione ad hoc o conversione tecnica».

Nella tua analisi pubblicata sull’ultimo numero di Domino, scrivi che l’invio di tali e tante armi all’Ucraina nell’ultimo anno “unitamente alle perdite elevate in truppe, armi e mezzi imposti da un conflitto internazionale, sta trasformando l’Ucraina in un vasto rottamato di mezzi militari”. Che conseguenze avrà tutto ciò sul futuro del Paese?

«È evidentemente così, dal momento che da 12 mesi stiamo mandando agli alleati ucraini soprattuto mezzi radiati dai nostri eserciti e riesumati dai magazzini di militari. E nel momento in cui cedi a un altro Paese tanti mezzi diversi non avrai mai una linea logistica comune. Nei video della ri-presa di Cherson da parte delle forze di Kiev lo scorso autunno si vedono chiaramente le compagnie di Kiev avanzare, ciascuna con mezzi diversi. Quando hai una situazione del genere, finisci per utilizzare la metà dei mezzi per combattere, l’altra metà per “cannibalizzarli”, cioè smontarli a pezzi e usarli per la catena logistica. È difficile alimentare in questo modo un esercito che combatte. Ed è difficile anche mantenerli e gestirli. Ho contato 160 diversi modelli di mezzi ceduti all’Ucraina. Tutti questi mezzi, insieme anche a quelli che già gli ucraini avevano negli arsenali e a quelli conquistati ai nemici russi, resteranno sul campo a guerra finita distrutti e abbandonati. Ora è vero che l’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale si rialzò a livello economico anche reinventandosi nel recupero dei materiali – ferro, cavi elettrici etc – disponibili nei rottami della guerra. Ma non possiamo nasconderci che questo rappresenta per noi un vantaggio – perché sostenendo un alleato ci siamo al contempo sbarazzati di mezzi militari che con le attuali leggi europee hanno dei costi di smaltimento spaventosi. E questo nel dopoguerra per le zone dove si è combattuto rappresenterà un “peso”, anche in termini ambientali, non indifferente».

Quanto è lontano, quel dopoguerra?

«Nessuno lo sa. Ma una cosa mi pare chiara: lo scorso mese Biden non è andato a Kiev soltanto per una questione d’immagine – ossia per mostrare plasticamente che non è Sleepy Joe – ma anche perché aveva la necessità di qualcosa di persona a quattr’occhi a Zelensky. E non a caso, immagino, il giorno dopo Reuters ha citato un anonimo alto funzionario Usa dire che l’che aiuto militare Usa “non potrà essere infinito”. Tradotto, il messaggio all’alleato ucraino è stato verosimilmente: o hai un piano per porre fine alla guerra entro un mese, oppure preparati a negoziare».

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