Delega fiscale/2 Meloni stia attenta all’effetto boomerang del caffè sospeso che già travolse Silvio Berlusconi

Dalle prime simulazioni sulle novità che verranno introdotte, la rivoluzione fiscale sembra tradursi in un risparmio di poche centinaia di euro all’anno

Ci sono non pochi punti della delega fiscale appena approvata dal governo di Giorgia Meloni che ricordano l’operazione che tentò Silvio Berlusconi alla guida del governo fra il 2001 e il 2006. Innanzitutto l’enfasi che allora come oggi accompagnò l’operazione della riduzione delle tasse e delle aliquote Irpef. Venti anni fa la riforma era partita dalla campagna elettorale del «Meno tasse per tutti» ed ebbe un percorso piuttosto accidentato anche per la temporanea sostituzione di Giulio Tremonti con Domenico Siniscalco al ministero dell’Economia, arrivando solo per gli anni 2005-2006 a una riduzione da cinque a quattro aliquote con la prospettiva di ridurle ulteriormente a 3 (23-35-39%). Berlusconi però avrebbe perso di un soffio le elezioni del 2006 a vantaggio di Romano Prodi e a tre le aliquote Irpef non sarebbero mai scese. Anzi, dal 2007 sono state ripristinate le 5 aliquote originarie.


Ricordo che all’epoca di quella prima riduzione effettiva dirigevo Il Tempo. Ed ero sommerso da lettere e telefonate dei lettori che in molti casi erano stati elettori di Berlusconi delusi da quella riforma. La frase più gettonata era «Il Cavaliere ci ha lasciato un caffè sospeso». Il riferimento era ad un’antica usanza napoletana per cui cittadini generosi e filantropi il mattino ordinavano al bar di fiducia un caffè per sé e ne lasciavano pagato un altro per avventori sconosciuti e in difficoltà economica. Gesto nobile, ma il caffè a cui alludevano gli elettori di Berlusconi aveva invece sapore amaro. Quelli si aspettavano di vedere cambiare la loro vita radicalmente dopo le promesse del Cavaliere, e invece si trovavano nel migliore dei casi ad intascare 20-30 euro al mese in più: nemmeno un caffè al giorno, e la delusione era davvero grande.


Quanto si risparmia davvero

Le prime simulazioni pubblicate sulla stampa della riforma Meloni fanno pensare a un bis di quegli anni, grazie alla riduzione a tre aliquote Irpef nel primo modulo della riforma (il solo che può diventare realtà in questa legislatura). Secondo quei calcoli il risparmio fiscale massimo sarebbe ottenuto da chi oggi ha un reddito lordo fra 28 mila e 35 mila euro annui. Il premio massimo annuale ottenuto dalla riduzione delle aliquote da 4 a 3 sarebbe di 260 euro annui. Considerando una media di 13 mensilità per i principali contratti di lavoro si traducono solo per pochissimi fortunati in un caffè sospeso due giorni sì e uno no: 20 euro al mese. Nelle grandi città grazie al caro-caffè sarà gratis solo un giorno sì e uno no. Facile capire che quel risultato farebbe a pugni con l’enfasi di una annunciata «rivoluzione fiscale» e il governo stesso poi pagherebbe le conseguenze politiche di questa inevitabile delusione e amarezza dei cittadini contribuenti. Teniamo presente che un provvedimento assai criticato dal centrodestra come quello di Matteo Renzi sugli 80 euro metteva in tasca ai cittadini quattro volte tanto questa ipotizzata riforma epocale.

C’è un altro dettaglio che mi farebbe consigliare alla Meloni di procedere con grande cautela riponendo nei depositi i fuochi di artificio comunicativi già sfoggiati dopo il varo della delega in consiglio dei ministri. Il testo è ambizioso, e non riguarda solo l’Irpef, ma anche Irap, Iva e il rapporto stesso fra fisco e contribuenti. Ma al suo ultimo articolo chiarisce che la riforma deve essere a costo zero per il bilancio dello Stato. Una ovvietà, perché così stabilisce la nostra Costituzione riformata con l’obbligo di pareggio di bilancio. Ma che in questo caso semplicemente dice che ogni sconto concesso va coperto dallo stesso fisco tagliando agevolazioni esistenti.

Le agevolazioni fiscali

È dal 2006 che a questo obiettivo ha lavorato un dirigente della Banca di Italia, Vieri Ceriani, chiamato prima come consulente e poi da Mario Monti come sottosegretario al Tesoro con il compito di mappare le tax expenditures (agevolazioni fiscali) esistenti al fine di eliminarne alcune e tagliarne altre. Il lavoro di Ceriani – centinaia di pagine di tabelle – è stato imponente ma in quasi venti anni non ha prodotto nulla. Sarà anche mancata volontà politica, ma se uno sfoglia quelle pagine capisce bene il motivo. È certamente utile ai fini della semplificazione fiscale sfrondare quella pioggia di agevolazioni, ma ognuna di quelle ha costi quasi impercettibili: da migliaia a centinaia di migliaia di euro. Non si ricava il tesoretto necessario a cambiare Irpef, Irap e Iva se non aggredendo la carne viva di quelle tax expenditures.

Quindi detrazioni per spese mediche, agevolazioni fiscali sulla produzione del lavoro (dipendente o autonomo), e tutto il complesso di quelle sulla casa. Toccare quei capitoli sicuramente consente di avere risorse, ma è partita delicatissima da maneggiare con grandissima cura altrimenti sono più i guai dei benefici. Pensiamo solo al capitolo casa: oggi c’è stato un freno al superbonus 110% e soprattutto al mercato della cessione dei crediti di imposta. Giusto, ma se fra pochissimi o pochi anni l’Europa comunque obbligherà gli italiani all’adeguamento energetico delle loro abitazioni, bisognerà allargare eccome quello spazio fiscale, perché gran parte dei cittadini non avranno le risorse per farlo.

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