L’Avvocatura di Stato nega il risarcimento ai discendenti di un ex militare internato in un campo di lavoro nazista: «Non fu crimine contro l’umanità»

La replica dei discendenti: «Quando tornò, Pietro pesava 46 chili, dire che non fu un crimine contro l’umanità è una tesi al limite del negazionismo»

Vennero costretti alla guerra e finirono nelle mani della furia nazista. Sono gli Imi, gli internati militari italiani che dopo l’armistizio di Cassibile, con cui venne sancito il disimpegno dell’Italia dall’Alleanza con la Germania nazista di Hitler, vennero catturati dai tedeschi e deportati nei campi di lavoro forzati controllati dalle truppe naziste. Tra loro anche il ventenne Pietro, soldato vicentino ora deceduto, che venne catturato dalle truppe naziste a Bolzano il 9 settembre 1943 e deportato nel campo di lavoro forzato a Kaisersteinbruch, in Austria, dove rimase imprigionato per 715 giorni. I discendenti di Pietro hanno fatto causa sia allo Stato Italiano sia alla Germania per i danni subiti durante la detenzione. Un risarcimento da 78mila euro che però, l’Avvocatura di Stato ha negato, malgrado il governo Draghi abbia stanziato 55 milioni di euro proprio per risarcire le famiglie e i discendenti degli Imi, e il governo Meloni abbia rifinanziato la misura. I legali dei discendenti della famiglia di Pietro, Francesco Lanaro e Lara Dal Medico, dicono al Corriere del Veneto: «Dopo 715 giorni in condizioni disumane, costretto a lavorare fino a 18 ore di fila e nutrito con pasti da circa 300 calorie al giorno, Pietro tornò a casa: pesava 46 chili».


Le motivazioni del rigetto del risarcimento

Tra le motivazioni per cui l’Avvocatura di Stato ha rigettato la richiesta di risarcimento si legge che la cattura di Pietro, così come il trasferimento e detenzione nel campo di lavoro forzato «non appare integrare un crimine di guerra o altro crimine contro l’umanità […]. Sembra in effetti potersi affermare che l’azione compiuta dagli organi tedeschi limitatamente al territorio italiano, la cattura e il trasferimento in Germania come prigioniero, non costituisca illecito né internazionale né contro i valori fondamentali indicati dalla Corte costituzionale». E i legali dello Stato italiano aggiungono che l’illecito sarebbe avvenuto «esclusivamente in territorio germanico, attraverso il trattamento illegittimo durante la permanenza nei campi di prigionia», e di conseguenza l’Italia non sarebbe chiamata a risponderne e a risarcire i danni, perché quando accaduto a Pietro, ma ad altri soldati italiani, non rappresenterebbe un fatto «di per sé legittimo secondo il diritto bellico». Insomma, secondo i legali dello Stato italiano la cattura del soldato rientrerebbe sotto il legittimo controllo da parte del paese che lo ha in custodia. La motivazione dell’Avvocatura dello Stato troverebbe fondamento giuridico nella Convenzione dell’Aja del 1908, secondo cui «i prigionieri di guerra sono in potere del governo nemico e possono essere internati in un luogo qualunque» e «lo Stato può impiegare come lavoratori i prigionieri di guerra». 


La replica dei legali della famiglia

Commentando le motivazioni del rifiuto per il mancato risarcimento, i legali della famiglia dell’ex militare italiano internato, hanno osservato: «Pietro, così come decine di migliaia di militari italiani, fu catturato all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, quando peraltro l’Italia non aveva ancora dichiarato guerra a Hitler. Quindi, formalmente, non poteva neppure essere considerato un nemico. Dopo il conflitto, sulla base di accordi internazionali, la Germania ha ottenuto che nessuna vittima dei lager potesse farle causa, ed è per questo che il governo ha dovuto istituire il fondo di indennizzo. A Kaisersteinbruch, quell’uomo ha vissuto l’inferno, e ci finì solo perché indossava una divisa italiana. Quello stesso Stato che ora pare negare la gravità di ciò che accadde ottant’anni fa». E aggiungono: «Dire che la deportazione nei lager dei nostri soldati, da parte dei nazisti, non fu un crimine contro l’umanità, è una tesi al limite del negazionismo. Sono amareggiato dalla posizione processuale, ma soprattutto morale, assunta da chi ci rappresenta. Queste parole pesano come macigni sui famigliari». Il caso è al vaglio del Tribunale di Trento e la sentenza è attesa per il 2024. La decisione coinvolgerà non solo il caso dell’ex soldato Pietro, ma rappresenterà anche una bussola per i discendenti degli altri internati militari italiani che, secondo le stime, sarebbero stati oltre 715.000.

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