Dl Lavoro, prorogare per non decidere. Dallo smart working ai bonus: perché il legislatore dimostra di non avere le idee chiare

Ogni sei mesi viene varata una regola “a tempo”, il che dimostra non avere proprio le idee chiarissime sulla materia

Nel nostro ordinamento del lavoro le proroghe sono come le ciliegie: una tira l’altra. Il Parlamento, durante il percorso di conversione del Decreto Lavoro approvato il 1 maggio (DL 48/2023), sembra voler confermare questa massima, prorogando per la sesta volta (fino a fine anno) il diritto allo smart working per i lavoratori fragili e per i genitori di figli under 14. Una normativa che era nata come transitoria, in un contesto di assoluta emergenza (la pandemia), è che è rimasta precaria anche quando è venuto meno l’allarme Covid. La scelta di prolungare una disciplina temporanea anche in una situazione come quella attuale, in cui per fortuna non c’è più l’emergenza sanitaria, è difficile da comprendere: quale che sia l’orientamento del legislatore – confermare oppure no la regola – sarebbe necessaria una scelta definitiva, piuttosto che questo stillicidio continuo di proroghe. Stillicidio che impedisce alle aziende e agli stessi lavoratori di fare una programmazione credibile – è impossibile organizzarsi con un orizzonte temporale di pochi mesi – e che tradisce un problema ben più grave: la mancanza di una visione di fondo nelle scelte di politica del lavoro.


Prorogare per non decidere

Un legislatore che ogni sei mesi rinnova una regola “a tempo” dimostra che non ha le idee chiare su come impostare quella materia. Una regola transitoria poteva avere senso durante la pandemia, quando servivano scelte eccezionali non necessariamente valide per periodi diversi, mentre oggi non ha alcuna ragione sostanziale. Un problema, questo delle norme “precarie”, che investe anche altri importanti istituti del diritto del lavoro. Si pensi alla recente riforma della causali del contratto a termine, contenuta sempre nel DL 48/2023, la quale prevede che le parti (datore e lavoratore) possono scrivere da sole la causale, in caso di mancanza di un accordo collettivo, ma solo «entro il 30 aprile 2024». Oppure, sempre restando al recente Decreto Lavoro, al carattere temporaneo dei tanti incentivi e benefici fiscali connessi alle nuove assunzioni. Anche nella precedente legislatura non sono mancati casi eclatanti di norme «a tempo» (a parte le prime proroghe sullo smart working, anche il continuo rinvio delle norme sulla somministrazione a tempo indeterminato, o la disciplina delle causali nel c.d. decreto sostegni bis).


Le norme precarie hanno questo grande successo per una ragione inconfessabile: consentono di raggiungere un equilibrio politico tra chi vuole portare avanti una visione e chi la osteggia, semplicemente spostando nel tempo il momento della scelta definitiva. Ma queste norme stesso denunciano una pericolosa carenza di visione nel medio e nel lungo periodo da parte di chi le approva, e indeboliscono in modo importante il nostro mercato del lavoro. Che opinione può avere uno straniero intenzionato a investire in Italia di un diritto del lavoro nel quale lo smart working, il lavoro a termine, gli incentivi e tanti altri istituti sono governati da regole che scadono come una confezione di yogurt?

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