Loggia Ungheria, la sentenza di condanna per Davigo: «Non ha agito per salvare la magistratura, ma per polarizzare lo scontro nella sua corrente» – Le carte

Le motivazioni della sentenza con cui, il 20 giugno scorso, i giudici di Brescia hanno condannato l’ex pm di Mani Pulite

Sono parole dure quelle che i giudici di Brescia hanno messo nero su bianco nel condannare il collega Piercamillo Davigo a 15 mesi per rivelazione del segreto. E sono arrivate anche piuttosto rapidamente, visto che la sentenza è stata pronunciata il 20 giugno e oggi sono state depositate 111 pagine di motivazioni. La vicenda riguarda il fatto che nell’aprile 2020 Davigo, allora al Csm, avrebbe incontrato il pm di Milano Paolo Storari, convinto che i suoi colleghi e il procuratore capo Francesco Greco non volessero indagare sull’esistenza di una presunta loggia massonica, la Loggia Ungheria – poi rivelatasi inesistente. Secondo il racconto dell’avvocato Piero Amara, in questa loggia quasi tutta romana magistrati e avvocati si scambiavano favori e promozioni e ne avrebbe fatto parte anche il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, membro come Davigo della corrente Autonomia e Indipendenza. Ricevuto il racconto di Storari, Davigo avrebbe girato direttamente o indirettamente i verbali di indagine ad alcuni membri del Csm e ad alcuni giornalisti. Davigo, scrivono i giudici, aveva un rapporto così stretto col pm da essere al corrente delle indagini praticamente in tempo reale, scrivono i giudici: «Numerosi indizi – e non “una ricostruzione obiettivamente paranoica” – suggeriscono che il dott. Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte del dott. Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020».


Le ragioni di Davigo

Sulle ragioni dell’ex membro del pool Mani Pulite, i magistrati si soffermano a lungo, specificando soprattutto che nella vicenda Davigo ha comunque mostrato di aver perso la “postura istituzionale”: «Le motivazioni offerte dal dottor Davigo per giustificare l’incontinenza divulgativa e i criteri di selezione adottati nella scelta dei depositari del segreto sono state assai variegati ma, in nessun caso, ricollegabili a fini ordinamentali», si legge. «Le modalità quasi carbonare con cui le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo del dottor Storari, e le precauzioni adottate in occasione delle disvelamento ai consiglieri – avvenuto nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici – appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale».


L’attacco al collega Ardita

Secondo i magistrati, Davigo era effettivamente convinto che il collega Sebastiano Ardita fosse membro di una loggia. Ma una volta appresa la notizia, più che agire a tutela di tutti i giudici, si sarebbe preoccupato soprattutto di isolarlo e di agire in modo che questi non sapesse che era stato lui a divulgare le notizie: «Le risultante processuali dimostrano che l’imputato – scrivono i giudici – lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura a fronte dell’attacco “violentissimo all’ordine giudiziario nel suo complesso”, portato dall’avvocato Amara, abbia piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l’attenzione sul dottor Ardita». Perché, come ha spiegato lo stesso Davigo, il rischio era che il danno fosse per tutta la corrente che aveva lui stesso fondato, oltre che per la permanenza al Csm di Ardita.

L’intento di far terra bruciata attorno ad Ardita è dimostrato, scrivono i magistrati, anche se non c’è certezza sul fatto che Davigo volesse calunniarlo: «Gli elementi raccolti nel corso dell’istruttoria non sono in grado di comprovare con sufficiente grado di certezza che abbia strumentalmente ottenuto e divulgato il verbale di Amara animato da una cosciente volontà di propalare un’accusa che sapeva mendace».

Ed è questo il motivo per cui l’accusa è caduta mentre è rimasta quella di rivelazione del segreto.

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