La ragazza licenziata dopo la fecondazione in vitro: «Scegli: o fai la mamma o lavori»

La donna ha avuto un aborto per lo stress. Poi il trasferimento e la causa di lavoro

Samantha G., 30enne di Chivasso, lo scorso giugno avverte i dirigenti dell’azienda di idrotermosanitari per cui lavorava che avrebbe affrontato la fecondazione in vitro all’ospedale Valdese di Torino per diventare madre. Da quel momento viene presa di mira dai responsabili di reparto. Nel luglio 2022 le viene comunicato il trasferimento nella filiale di Torino a 25 chilometri da casa. Ad agosto perde il bambino. A causa, secondo i medici, di un forte stress emotivo dovuto al trasferimento. Lo scorso febbraio arriva il licenziamento. Il su avvocato fa notare che nel provvedimento «sono stati inseriti anche i giorni di ricovero per la fecondazione e quelli per l’aborto che, per legge, non devono essere conteggiati. Per questo abbiamo deciso di opporci».


Gli insulti e il body shaming

Ora la sua causa verrà discussa nel tribunale del lavoro di Ivrea: «La mia assistita, secondo l’azienda, avrebbe superato il “periodo di comporto”. Ovvero il totale delle assenze per malattia disponibili. Ma hanno sbagliato, perché nessun giorno di malattia è calcolabile se provocato dalla condotta del datore di lavoro», spiega Alexander Boraso. Mentre la 30enne ha raccontato le vessazioni sul lavoro: il capo filiale un giorno pubblicò una foto su un social che ritraeva Samantha intenta a mangiare una brioche con la dicitura «mangia che poi che me ne importa?». Un’altra volta sempre il capo filiale alla dipendente avrebbe detto: «Se il tuo compagno non ci riesce ci penso io a metterti incinta». E dopo l’invito a smetterla l’immancabile risposta: «Sono solo battute golardiche».


La richiesta ai giudici

«Chiederemo ai giudici di condannare l’azienda al risarcimento del danno cagionato per averla sottoposta a trattamenti mobbizzanti e di body shaming a partire dal 2019. Oltre ad integrare le differenze retributive mai percepite», conclude l’avvocato.

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