Landini sul caso del portavoce Cgil licenziato col Jobs Act: «È falso. E la sua figura non esiste più: era un lusso»

Il sindacalista respinge poi l’accusa di aver usato le regole del Jobs Act, perché Massimo Gibelli «era stato assunto nel 2012», prima dell’entrata in vigore della norma

Quello del portavoce è «un lusso che non possiamo permetterci» dice il segretario della Cgil Maurizio Landini, dopo le polemiche scoppiate per il licenziamento di Massimo Gibelli, che aveva raccontato il suo caso all’Huffington post. Storico portavoce del sindacato, Gibelli aveva lavorato per Sergio Cofferati e Susanna Camusso, finché con Landini è finita la sua esperienza con un «licenziamento per giustificato motivo oggettivo», riferitogli dopo un breve periodo di ferie. Un licenziamento che per altro sarebbe stato fatto «sfruttando anche il Jobs act», aveva spiegato Gibelli, proprio la riforma del Lavoro voluta da Matteo Renzi, contro cui il sindacato vuole organizzare un referendum abrogativo. Landini sul caso prova a spiegare: «La Cgil ha proceduto a una sua riorganizzazione interna e la scelta che è stata fatta è quella di non avere più la figura del portavoce. Nella riorganizzazione – ha spiegato il segretario generale del sindaco – questo è un lusso che non possiamo più permetterci. Non a caso io non ho più nessun portavoce, quindi abbiamo semplicemente fatto una riorganizzazione che va in questa direzione, né più né meno». Sull’accusa di aver sfruttato le regole del Jobs Act, Landini tiene il punto: «Il licenziamento con il Jobs Act non c’entra assolutamente nulla, lui era assunto dal 2012», mentre la norma è entrata in vigore a marzo 2015. «Insisto, noi abbiamo previsto una riorganizzazione e la figura del portavoce non esiste più. Accanto a me di altri portavoce non ne vedete, perché è un lusso che non possiamo permetterci. Siamo un’organizzazione che vive sul contributo economico degli iscritti e dobbiamo avere attenzione su come spendiamo i nostri soldi. Non c’è altra operazione che questa».


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