Dalle mazzette sventolate su Tiktok al mito di Joker, l’amore della nuova mafia per i social – L’intervista

Marcello Ravveduto, autore e docente di Digital Public History alle Università di Salerno, ha curato il rapporto «Le mafie nell’era digitale»

Un tempo c’era l’omertà, oggi l’ostentazione: lo stereotipo del mafioso munito di coppola e «pizzini» ha ceduto il passo a giovani gradassi che mostrano sorridendo mazzette di banconote e sfrecciano sulle macchine sportive, preannunciati da note di musica trap. Una sorta di rebranding della criminalità organizzata dovuto in parte ai social, dove proliferano i contenuti che ammiccano al mondo della malavita. E, tra ostentazione del lusso e della spericolatezza, la rendono glamour. «C’è la necessità di dimostrare come questa economia produce una ricchezza, che anche se costa carcere e morte ti consente di vivere in maniera gloriosa». A parlare è Marcello Ravveduto, autore e docente di Digital Public History alle Università di Salerno. Ha curato il rapporto Le mafie nell’era digitale, nato da un progetto della Fondazione Magna Grecia.


Professore, ogni giorno accadono episodi di violenza che vedono protagonisti i giovanissimi. Quanto ha a che fare con la narrazione moderna della criminalità?


«Oggi la violenza è sdoganata, non è più un taboo. Anzi, è un elemento fondamentale nell’immaginario comune: pensiamo ai prodotti culturali come Gomorra e Mare Fuori, e alla loro popolarità. Ma la violenza permea anche apprezzatissimi film, meno citati in questi casi: basta guardare ai prodotti della Marvel o della DC. Non è un caso che una figura trasversale a diversi mondi è quella di Joker. Lo troviamo a casa di Matteo Messina Denaro, tatuato sulla caviglia dei ragazzi nei quartieri spagnoli, ma anche sulla bandiera degli ultras del Milan».

Possiamo dire che anche la mafia è diventata a tutti gli effetti un fenomeno pop?

«Assolutamente sì. Possiamo parlare oggi di “post-mafia”, dopo uno stravolgimento provocato dai consumi e dai media. La mafia del 900, delle stragi, eversiva, come struttura di potere che interloquisce con la politica… è diventata nella dimensione pubblica una mafia brandizzata, tutta economica. Si costruisce appunta una ‘post-verità’, ovvero una verità ideologica. Un mondo con un’etica, anche se mafiosa. E questo è dovuto anche a un ribaltamento nel racconto: se prima a parlare del fenomeno erano principalmente giornalisti, registi e scrittori, adesso, grazie ai social, la narrazione viene costruita dal basso, come autorappresentazione, da chi quel mondo lo vive in prima persona. E si costruisce un racconto vincente».

Attraverso quale tipologia di contenuti?

«Ce ne sono diversi. Troviamo innanzitutto i giovani rampolli di famiglie mafiose, che si comportano come influencer: raccontano la vita favolosa concessa da una ricchezza fuori dalla norma. Ma quei soldi sono spesso sporchi di sangue. Ecco allora che arriviamo alla seconda tipologia di contenuti: la commemorazione del fratello o del padre deceduti. O finiti in galera. Ci sono infatti alcuni hashtag ricorrenti: #41bis, #arresti, #detenuto… addirittura a Tor Bella Monaca abbiamo trovato l’hashtag #pusherando, sulla falsariga del brano Shakerando. C’è chi si trova ai domiciliari, e passa tutto il giorno a fare TikTok. Racconta le gesta del proprio clan, la reclusione, mostra mazzette di banconote. Addirittura abbondano i contenuti girati dai carcerati stessi, grazie a smartphone introdotti di nascosto: creano una sorta di reality show della galera».

Spregio della legge o incoscienza?

«Si sentono al di sopra della legge. E hanno fatto una scelta: tra omertà e visibilità scelgono la visibilità, perché hanno compreso che essere presenti e controllare il territorio virtuale è fondamentale come controllare il territorio reale».

Mi fa qualche esempio?

«Abbiamo ad esempio analizzato il profilo di Crescenzo Marino, figlio del boss Gennaro: molto seguito sui social, dove ostentava il suo status symbol, mentre offline portava avanti le attività illegali di famiglia. È stato arrestato nel luglio 2022 per il coinvolgimento all’interno del clan delle Case Celesti nel quartiere di Secondigliano, zona nord di Napoli. Ma potrei fare anche l’esempio di Massimiliano Esposito Junior, figlio del boss di Bagnoli detto «lo Scugnato», che continua a fare contenuti anche dal carcere. E poi ci sono i «mafiofili», sedotti dal mondo criminale senza essere in prima persona partecipi. Caricano contenuti celebrativi del Padrino, citazioni… per loro la mentalità mafiosa è un modo di integrarsi nella società».

Quale tipo di pubblico interagisce con questi contenuti?

«Fuori dall’Italia, c’è chi è affascinato dal mondo della mafia ma ne è del tutto estraneo. Qui però c’è un’attenzione diversa. Nel circuito, oltre ai criminali, entrano anche quelli coinvolti a vario titolo nel grande indotto generato dalle mafie: sono vicini ai mafiosi, ma non sono direttamente implicati».

Da spettatori a emulatori, il passo è breve?

«Assolutamente, ma si emulano addirittura tra di loro, alimentando la spirale. Se un clan fa una cosa, l’altro reagisce e lo imita o lo provoca. E questo è un meccanismo che non appartiene alla mafia, ma appartiene ai social network, dove gli utenti sono prosumer: a un tempo consumatori e produttori».

Quali sono i social preferiti dai mafiosi, e perché?

«Facebook ormai è in stallo dal 2019, su Instagram possiamo trovare qualche profilo, ma privato. TikTok invece è il più frequentato, perché consente una maggiore libertà: è possibile aprire un profilo senza mettere nome e cognome, persino senza registrarsi. Basta fornire un numero di telefono o una mail. Poi è una piattaforma che invita a partecipare, a esibirsi. Per questo è prescelto dai gruppi che partono da una grande capacità di comunicazione: camorristi, rom di Roma, la mafia pugliese. Non si tratta solo di inclinazioni istrioniche: hanno capito che più contenuti si generano, meno danno nell’occhio, più si scompare. Puntano a creare un mare di video in cui affogare o far affogare gli altri».

Le piattaforme non sono in grado di bloccarli?

«Il problema è che non sanno come fare. Prendiamo TikTok: ha un sistema di monitoraggio a imbuto. La prima fascia è determinata dall’Intelligenza Artificiale, che blocca parole o simboli che possono essere scabrosi, violenti o pericolosi. Se viene ad esempio inquadrata una pistola, o un’impennata con il motorino. Poi c’è una seconda fase, dove i contenuti vengono suddivisi per tematiche. E poi la terza, che prevede l’intervento di moderatori umani. Il problema è che questi ultimi lavorano in centrali del Nord Europa (spesso in Irlanda): come fanno a bloccare un contenuto in dialetto napoletano, siciliano o lombardo? Tutto ciò che non è esplicitamente criminale non può fare a meno che passare».

Come intervenire?

«Ribaltando l’imbuto: partendo cioè da un’osservazione sul territorio. Cominciando, per esempio, dal rintracciare i profili social di chi viene arrestato. Studiare come si comporta sulle piattaforme, e individuare la sua rete di riferimento: chi commenta, chi condivide. Per esempio noi, nelle nostre ricerche, a partire dal profilo di due giovani incensurati appartenenti a una famiglia camorrista e a una della mafia foggiana, siamo riusciti a ricostruire la rete del clan solo andando a vedere i commenti sotto i loro post. E non siamo la Dia, ma ricercatori: è bastato rovesciare la logica. Studiando i profili social, i contenuti e i followers, si può ricostruire la cerchia dei vicini al clan. O perlomeno di quelli che sono sedotti dalle sue logiche».

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