Alasttal, regista a Gaza Sud: «Profughi ovunque e medicine finite. Ero tornato per raccontare la vita quotidiana, ora non so cosa resterà» – L’intervista

Iyad Alasttal vive a Khan Yunis e cura il progetto Gaza Stories: «Ho studiato in Corsica e ho il visto per tornare. Ma ora non potrei vivere in una falsa serenità in Europa»

La guerra distrugge e rade al suolo: vite e palazzi, certo, ma anche, persino più in profondità, l’immagine dell’Altro, ridotto nella percezione di chi subisce razzi, bombe o attentati a nient’altro che «il massacratore». Un nemico monolite indistinguibile, da combattere con ogni mezzo. È la dinamica di molti conflitti, e quello riesploso da 17 giorni tra israeliani e palestinesi non fa eccezione. Anzi, lo eleva all’ennesima potenza. Lo conferma la voce che risponde via Whatsapp di Iyad Alasttal, regista e documentarista palestinese nato e cresciuto a Khan Yunis, dove è tornato dopo gli studi in Francia per vivere e raccontare la sua terra. Un racconto di drammatica sofferenza sotto i pesanti bombardamenti che Israele sgancia quotidianamente sulla Striscia dal giorno in cui terroristi di Hamas hanno invaso il suo territorio facendo strage di circa 1.400 persone. E di fili di speranza mescolati con un odio per la parte avversa che si fa sempre più profondo e inguaribile. «Viviamo sotto l’embargo israeliano da quasi 17 anni, ma dal 9-10 ottobre siamo sotto assedio completo», racconta Iyad al telefono, confermando la disastrosa situazione umanitaria: «Non c’è acqua né gas, né benzina o medicine. Dopo due settimane di guerra la comunità internazionale ha sventolato come un successo l’accordo negoziato per far entrare 20 camion al giorno di aiuti. Ma qui le stime reali sono che ci sia bisogno di 3-400 camion al giorno di cibo, gas, benzina, farmaci».


Sfollati e aiuti: che succede nel sud della Striscia

Il regista Iyad Alasttal


Khan Yunis, dove Iyad vive oggi con moglie e tre figlie, si trova nella parte sud della Striscia, a una decina di chilometri da Rafah, il valico di confine con l’Egitto da cui entrano alla spicciolata gli aiuti ed escono nei fin qui rari casi d’intesa gli ostaggi fatti prigionieri dagli islamisti (4 su 222). Una zona meno colpita dai raid israeliani nelle precedenti guerre con Hamas (2009, 2014, 2021), ma che in questi giorni non è risparmiata dal duro contrattacco aereo dell’Idf. «La situazione è pericolosissima in tutta la Striscia», racconta Iyad: «Sentiamo i colpi dell’esercito israeliano in continuazione, giorno e notte, anche qui al Sud». Il regista racconta di aver perso dall’inizio delle nuove ostilità 60 persone della sua famiglia allargata, e ogni giorno porta nuovi lutti. «Non ci sono luoghi sicuri», dice. La parte meridionale della Striscia è quella verso cui da settimane Israele ha sollecitato i civili della zona nord a defluire, in vista della massiccia operazione contro i terroristi di Hamas – di cui pure la parte terrestre pare al momento rinviata. L’Onu parla di circa 1,4 milioni di sfollati interni alla Striscia in cerca di riparo: «Sì, qui a Khan Yunis arrivano famiglie ogni giorno. Vengono ospitati soprattutto in scuole e ospedali, ma le condizioni di vita sono pessime: si ritrovano a dover dormire anche dieci famiglie in ogni classe di scuola, senza lenzuola, acqua, cibo. E sull’intero piano c’è una sola toilette». Ad alleviare le difficoltà dei rifugiati interni, testimonia il documentarista, è la risposta spontanea dei locali. «C’è grande solidarietà. La gente di qui, di Rafah o di Khan Yunis, condivide tutto. Sa di vivere la stessa situazione e si fa la stessa domanda: se sfuggiremo alla morte dagli attacchi israeliani sopravviveremo senza cibo e medicine?».

Restare o partire

Da ragazzo Iyad ha lasciato Khan Yunis per approdare in Corsica, dove ha studiato cinema grazie a una borsa di studio. Ma ha scelto poi di tornare a casa per raccontare, ci dice, «la vita quotidiana a Gaza: gli artisti, le donne, gli sportivi, i disabili, tutto ciò che non si vede nel racconto dei media». Il suo progetto si chiama, o si chiamava, Gaza Stories. «Ora però non so più cosa potrò mostrare della vita quotidiana di Gaza». In Francia Iyad ha tuttora amici e connessioni, anche professionali, e un visto Schengen tuttora valido. Inevitabile chiedergli se di fronte alla nuova guerra e allo sfacelo di cui si è fatto testimone nei giorni scorsi anche per il Nouvel Observateur non stia pensando di lasciare Gaza. La domanda è per lui lacerante. «Vivo nell’incertezza sin dalla prima guerra contro la Striscia. Vorrei far crescere le mie figlie nella nostra cultura, nel nostro posto. Ma allo stesso tempo vorrei farle crescere in un ambiente stabile e sicuro per il loro futuro». Ma al momento, tutto sommato, prevale il primo intento: «Anche quand’ero da solo in Francia non ero mai contento, sapendo che i miei cari soffrivano quaggiù mentre passeggiavo per i bei quartieri di Parigi in tutta sicurezza. Preferisco morire a casa mia piuttosto che vivere in una falsa serenità in Europa». Poi si adira: «È l’occupazione israeliana che stravolge le nostre vite, i responsabili dovrebbe finire di fonte alla giustizia internazionale». Conclusione, per sé e la sua famiglia: «Vorrei solo poter vivere in pace e sicurezza qui a Gaza».

Le responsabilità di Hamas e l’orizzonte con Israele

Già, la pace. Ma a cosa pensa esattamente oggi un cittadino palestinese come Iyad quando pronuncia quella parola? Alla possibilità di vivere un giorno in pace accanto a Israele? Ci pensa bene, il regista di Khan Yunis, poi risponde con una metafora: «Due montagne non s’incontrano mai. Loro vogliono prendersi tutta la Palestina, noi vogliamo la liberazione dei prigionieri e il diritto di ritorno», scandisce. «Dobbiamo resistere con tutti i mezzi», chiosa. In quel tutti ci sono anche gli assassini indiscriminati, stupri, torture e rapimenti scatenati da Hamas 17 giorni fa? Iyad è a disagio, vorrebbe non rispondere. Ma lo fa: «Io resisto con la mia forma di resistenza personale – il cinema. Altri con altre forme. I francesi durante la Seconda guerra mondiale non accoglievano certo gli occupanti tedeschi con corone di fiori no?». Vale tutto, dunque, perfino nascondersi come fanno quotidianamente i tagliagole di Hamas dentro chiese, moschee e ospedali, trasformando i civili palestinesi in scudi umani? «Non difendo quel partito politico – concede Iyad – ma subiamo tutti la stessa cosa: è l’occupazione israeliana a non fare distinzione tra civili e “resistenti armati”. Vogliono ripulire tutto, e cacciarci da questa terra». La stessa frase, a parti invertite, che dopo il massacro del 7 ottobre pronuncerebbero oggi senza esitazione molti israeliani. E il dramma della guerra è tutto qui.

Leggi anche: