Cessate il fuoco, pause umanitarie o pause tattiche? Il lessico per capire la guerra (e i negoziati) Israele-Hamas

Le diplomazie internazionali fremono per consentire aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e la liberazione degli ostaggi. Ma il diavolo sta nei dettagli. Eccoli

Superato ormai il mese di combattimenti, la guerra tra Israele e Hamas sembra essere vicina al suo punto culminante, con l’attesa battaglia tra forze dell’Idf e terroristi dentro Gaza City. Un conflitto devastante, anche e soprattutto per le conseguenze sui civili: i circa 1.400 israeliani massacrati dai miliziani di Hamas il 7 ottobre, le altre centinaia rapite e portate in ostaggio a Gaza, le migliaia di palestinesi rimasti uccisi nei bombardamenti lanciati sin dal giorno dopo dallo Stato ebraico sulla Striscia: oltre 10mila secondo il ministero della Sanità di Gaza gestito da Hamas, più di 4mila dei quali minori. Per tutti gli altri che vivono nella parte Nord della Striscia, la scelta drammatica tra restare, a rischio di restare uccisi nei raid o nei combattimenti, o evacuare con pochi stracci verso lo sperato riparo a Sud. Mentre in Israele si stima siano circa mezzo milione le persone sfollate dal 7 ottobre, volontariamente o su indicazione del governo, per sfuggire ai razzi lanciati quotidianamente sul Sud da Hamas e sul Nord da Hezbollah e per consentire le operazioni militari nelle aree di confine. Per questo le diplomazie internazionali sono al lavoro perché le armi tacciano, almeno per il tempo necessario a consentire l’ingresso di più massicci aiuti umanitari nella Striscia e la liberazione di ostaggi, feriti o cittadini stranieri. Ma il diavolo sta nei dettagli. Come, quando e per quanto tempo si dovrebbero interrompere i combattimenti? Ogni richiesta ha un significato non solo tecnico, ma anche politico-militare, decisamente differente. Ecco perché è essenziale capire le differenze tra le due locuzioni principali su cui discutono freneticamente in queste ore le diplomazie: «pause umanitarie», «pause tattiche» o «cessate il fuoco»?


Cessate il fuoco

È la richiesta perentoria avanzata ormai da settimane dall’Onu, così come da tutti i gruppi/attivisti nel mondo che pongono sopra ogni altra considerazione il destino dei civili: quelli palestinesi di Gaza in primis, gli ostaggi israeliani e non solo in secundis. Cessate il fuoco. Ossia s’interrompa qualsiasi azione armata per consentire l’immediato soccorso ai feriti, l’aiuto umanitario massiccio per i civili in condizioni drammatiche, la liberazione degli ostaggi. Come minimo. La richiesta è rivolta chiaramente a Israele, che nelle ultime settimane ha scatenato una potenza di fuoco dal cielo – dal 27 ottobre a sostegno dell’offensiva di terra – senza precedenti. Non sempre altrettanto chiara è l’equanime richiesta a Hamas, che non ha mai cessato il lancio di razzi, così come ad Hezbollah. Secondo quanto riportano i manuali di diritto internazionale (cf. F. Bouchet-Saulnier, The Practical Guide to Humanitarian Law, Rowman & Littlefield Publishers), il cessate il fuoco può essere indetto tanto unilateralmente da uno dei due (o più) belligeranti, quanto da entrambi/tutti. Ma la sua logica va di norma ben oltre il semplice soccorso umanitario e ha invece un chiaro senso politico-militare: si qualifica infatti in generale come «un accordo che regola la cessazione di ogni attività militare per un dato periodo di tempo in una data area», il cui scopo principale usualmente «non è quello di consentire azioni umanitarie». È invece «una decisione militare che risponde a obiettivi strategici: radunare le forze, valutare l’autorità e la catena di comando dell’avversario o condurre negoziati». Nei conflitti insomma è di norma richiesto da chi tra le parti in campo sta per (o crede di stare per) avere la peggio, e difficilmente concesso da chi invece sta conseguendo risultati e vuole capitalizzare il momentum fino a raggiungere i propri obiettivi. A meno che pressioni sufficientemente forti dall’esterno non lo persuadano o costringano a fermarsi. Una volta proclamato, il cessate il fuoco istituisce di fatto una tregua, che può poi mostrarsi più o meno solida e durevole ma che normalmente è pensata per durare un tempo non breve, e nel migliore dei casi porre le basi per un futuro formale accordo di pace.


Pause umanitarie

La richiesta di cessate il fuoco è rispedita ostinatamente al mittente da Israele, il cui governo da settimane ripete come implementarlo non significherebbe altro se non dare a Hamas il tempo di riorganizzarsi, riarmarsi e potenzialmente preparare nuovi attacchi terroristici come quello del 7 ottobre, come annunciato esplicitamente dalla sua stessa dirigenza. La posizione del governo israeliano è sostenuta dagli Usa – come ha ribadito ancora ieri dal segretario di Stato Antony Blinken – e, almeno sin qui, da buona parte dell’Ue. La richiesta avanzata dai Paesi occidentali, vicini a Israele ma preoccupati per il pesantissimo impatto sulla popolazione di Gaza oltre che per il destino degli ostaggi, è dunque più limitata. E si è sin qui concretizzata in termini diplomatici in un pressing perché siano consentite «pause umanitarie» nei combattimenti. Come riassume il glossario del diritto internazionale delle Nazioni Unite, la pausa umanitaria si qualifica come una «temporanea cessazione delle ostilità puramente per scopi umanitari. Richiede l’accordo di tutte le parti in causa ed è di norma indetta per un periodo di tempo e un’area geografica limitata, laddove si devono consentire attività umanitarie». La novità escogitata nell’ambito dei negoziati Ue per consentire una posizione comune tra i Paesi membri lo scorso 26 ottobre, e da allora entrata nelle discussioni internazionali, è la trasformazione dell’espressione al plurale. Pause e non pausa umanitaria. Una lettera differente che sottende una sottigliezza politica: l’indicazione chiara – richiesta dai Paesi più sensibili alle ragioni di Israele – di brevi interruzioni “tecniche” nelle operazioni militari, e non di qualcosa che possa anche solo somigliare o condurre a un cessate il fuoco.

Pause tattiche

Il gabinetto di guerra israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, d’altra parte, non ha sin qui mai accettato apertamente neppure di consentire questo tipo di interruzioni. Ancora venerdì scorso, dopo l’ennesima visita di Blinken a Tel Aviv, Netanyahu ha respinto tale richiesta avanzata esplicitamente dagli Usa, in mancanza della liberazione degli ostaggi da parte di Hamas. Solo negli ultimi giorni Israele ha accennato a un ammorbidimento rispetto alle pressioni internazionali, aprendo alla possibilità di «pause tattiche» nelle operazioni militari. Se nella sostanza le due locuzioni fanno riferimento a una realtà del tutto analoga – l’interruzione dei combattimenti per una finestra di alcune ore per consentire ai civili di evacuare le zone di guerra, ed altre attività umanitarie – questa seconda scelta lessicale sembra essere prediletta dal governo israeliano a sottolineare come vuole essere esso a gestire in piena autonomia i modi e tempi di attuazione di tali interruzioni. Le posizioni in campo degli attori coinvolti, comunque, sono sensibili di cambiare ed evolversi, come si è già visto in queste prime settimane di guerra, e non è escluso che alcuni dei protagonisti menzionati virino su un’altra delle locuzioni indicate, o addirittura che ne emergano di nuove, al servizio dei compromessi diplomatici realisticamente conseguibili.

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