Il 25 novembre e il «1 minuto di rumore» contro la violenza di genere: voci a confronto – Le interviste

Open ha chiesto alla consulente sessuale Zollino, alla formatrice Facheris. all’operatrice Heidempergher e alla scrittrice Ndiaye di ragionare sulla violenza di genere, sugli slogan, sul concetto di colpa e responsabilità

Giulia Zollino, educatrice e consulente sessuale, Irene Facheris, formatrice e attivista femminista; Mara Heidempergher, operatrice Spazio Donna WeWorld (Milano – Corvetto) e Nogaye Ndiaye, scrittrice femminista. Per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne Open ha chiesto a tutte loro almeno «1 minuto di silenzio rumore» per ragionare sul concetto di violenza di genere, di not all men e della differenza tra colpa e responsabilità che sia politica, collettiva. Ma anche di riflettere sulle violenza invisibile – economica, digitale, psicologica – e degli strumenti per contrastarla e, soprattutto, provare a prevenirla.


Giulia Zollino, educatrice e consulente sessuale

«Quando penso alla violenza di genere penso al rumore, al rumore che stiamo facendo, che dobbiamo continuare a fare in onore di tutte le donne, tutte le persone trans, le persone queer, le persone che fanno sex work che sono state uccise da dei normalissimi, banalissimi uomini»


Irene Facheris, formatrice e attivista femminista

«Ogni volta che vedi un altro uomo avere determinati atteggiamenti, dal catcalling a messaggi discutibili in chat con gli amici, fai qualcosa per farlo notare? Perché lì sta il tuo potere e dunque la tua responsabilità»

Mara Heidempergher, operatrice Spazio Donna WeWorld (Milano – Corvetto)

«Il concetto di prevenzione è fondamentale e prevenire vuol dire innanzitutto parlare, far emergere. E la prevenzione necessita di azioni più complesse, prevalentemente azioni educative»

Nogaye Ndiaye, scrittrice e attivista femminista

«Un messaggio per questo 25 novembre? È ora di svegliarsi e fare una vera e propria rivoluzione culturale. Smettere di chiedere le cose, cominciare a pretenderle perché siamo stanche»

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