Divorzi, per l’assegno bisogna conteggiare anche la convivenza prematrimoniale: la sentenza della Cassazione

Nel caso su cui si sono espressi i giudici una donna ha chiesto un riconoscimento anche per il periodo di 7 anni, precedente alle nozze, in cui aveva rinunciato al lavoro per occuparsi della famiglia

La convivenza di una coppia non ancora sposata, «fenomeno di costume sempre più radicato nella nostra società», assume un valore anche nella valutazione dei giudici sull’importo dell’assegno di divorzio. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno ribaltato la sentenza di appello del tribunale di Bologna in un caso di separazione tra coniugi. Una donna aveva fatto ricorso contro l’assegno che era stato stabilito dai giudici perché non veniva calcolato il periodo di convivenza prematrimoniale, dal 1996 al 2003, periodo nel quale aveva deciso di lasciare il lavoro per dedicarsi alla cura della casa e della famiglia, e durante il quale era rimasta incinta e aveva avuto un figlio. Il tribunale non aveva preso in considerazione queste rinunce perché avvenute prima del sorgere degli obblighi matrimoniali, e quindi giuridicamente «non risultava che ella avesse sacrificato aspirazioni personali e si fosse dedicata soltanto alla famiglia, rinunciando ad affermarsi nel mondo del lavoro».


La sentenza

Ma la Cassazione ha ribaltato questa impostazione. L’evidente contributo alla stabilità della famiglia è arrivato prima dell’unione in matrimonio, durante i sette anni di convivenza. Si tratta di un modello relazionale sempre più diffuso «cui si affianca un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali», si legge nella sentenza riportata da la Repubblica. I giudici stabiliscono che quel periodo ha lo stesso valore nella definizione dell’assegno di divorzio quando si riscontrano gli stessi «connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche». Per contribuire alle necessità della famiglia, la donna ha rinunciato al proprio sviluppo professionale, lasciando il lavoro e quindi non potendo più «garantirsi un mantenimento adeguato» e autonomo. Secondo la Cassazione, quei sette anni di convivenza sono da considerare un periodo «continuativo e stabile» con quelli successivi al matrimonio, perché sono state prese scelte condivise che hanno poi inciso sulla vita matrimoniale. E quindi bisogna tener conto anche di esso per adattare l’assegno affinché abbia una natura compensativa.


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