A pochi giorni dal ricovero in ospedale, il fondatore del M5s condivide una poesia di Mahmud Darwish e un'immagine di Babbo Natale tra le macerie
«Buon Natale, con l’augurio che ognuno possa essere la luce di coloro che vivono nel buio». A pochi giorni dal suo ritorno a casa dopo il ricovero all’ospedale di Cecina, Beppe Grillo torna a scrivere sul suo blog. Lo fa per augurare un buon Natale a tutti i suoi seguaci, affidandosi ai versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, non dimenticare il cibo delle colombe. Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, non dimenticare coloro che chiedono la pace. Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri, coloro che mungono le nuvole. Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri, non dimenticare i popoli delle tende. Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri, coloro che non trovano un posto dove dormire. Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, coloro che hanno perso il diritto di esprimersi. Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio».
Sul sito di Grillo, i versi del poeta palestinese compaiono sotto una grande fotografia, probabilmente creata con l’intelligenza artificiale, che ritrae Babbo Natale sedere pensieroso in mezzo alle macerie di uno scenario di guerra. Mahmud Darwish, l’autore scelto dal fondatore del Movimento 5 stelle per i suoi auguri di buone feste, è considerato il maggiore poeta nazionale palestinese e uno dei maggiori in assoluto in lingua araba. Fin da giovanissimo, ha affiancato all’attività letteraria e giornalistica anche un forte impegno politico. Attivo negli anni Sessanta nel Partito Comunista di Israele, divenne poi uno dei quadri dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, e dal 1994 fu membro del parlamento dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Darwish è morto a Houston nel 2008, diventando la prima e unica personalità palestinese dopo Arafat a cui sono stati concessi i funerali di Stato.
Mia nonna ha l’Alzheimer, mia madre la subisce. L’una fa parte delle circa un milione e duecentomila persone che in Italia soffrono di demenza. L’altra dei tre milioni di caregiver che si assumono l’onere di assisterli nella loro ripetuta quotidianità fatta di ricordi che scolorano, si mischiano, scompaiono. E mentre mia nonna in solitudine «dimentica» chi è, mia madre le «ricorda» chi era. In un gioco senza fine a volte sfinente, persino colpevolizzante. Neppure il sistema assistenziale è preparato a dare conforto, soffocato dalla burocrazia, le sue infinite pratiche e le lunghe liste d’attesa. Il governo ha approvato pochi giorni fa un emendamento alla legge di Bilancio 2024 che prevede 4,9 milioni stanziati per il 2024, 15 milioni per il 2025 e altri 15 per il 2026. Manca ora il voto in Aula. Cifre che servono per la ricerca, per le diagnosi precoci, iniziative che includano le famiglie, per percorsi terapeutici. Al momento non esiste cura. Anzi, le previsioni indicano che in un futuro non troppo lontano il 23 per cento della popolazione italiana avrà più di 65 anni e che entro il 2050 in Europa saranno 18,8 milioni le persone affette da Alzheimer. Com’è possibile convivere con una malattia così terribile e provare a mantenere, per quanto possibile, una certa qualità di vita?
«Il Paese Ritrovato»
Nel tentativo di provare a dare una risposta a questa domanda, tra mille siti internet, guide, i soliti «10 consigli per (tutto)» che si trovano sul web, ho scoperto l’esistenza di un villaggio alle porte di Monza, in Lombardia, dove vivono soltanto persone affette dal morbo di Alzheimer. «Il Paese Ritrovato», questo il suo nome, è stato costruito per rispondere alle esigenze dei suoi abitanti. Nell’unica via del villaggio c’è la pro loco, la parrucchiera, il bar. Pure il cinema, la chiesa, la sartoria, l’orto e la palestra. Un luogo nato nel 2018 dal desiderio di un gruppo di operatori che da anni lavorano all’interno delle organizzazioni di cura e dei nuclei Alzheimer «di provare una strada differente che mettesse al centro la libertà della persona, il suo livello di autonomia e la sua possibilità di prendere in mano la vita e decidere nonostante le difficoltà di memoria», spiega a Open Marco Fumagalli, responsabile servizi educativi. Un progetto che per certi versi rivoluziona il modo di intendere la cura e l’assistenza e che offre alle persone con Alzheimer e demenza la possibilità di vivere la propria autonomia e al tempo stesso di usufruire della necessaria assistenza e protezione degli operatori del luogo: la barista è un’operatrice socio-sanitaria, la parrucchiera pure, l’insegnate di teatro una traumaterapeuta. «Il villaggio vuole essere rivoluzionario perché lascia uno spazio di autodeterminazione alla persona anziana che non può essere trovato sempre in Rsa così facilmente», sottolinea Mariella Zanetti, geriatra.
In questo posto, gestito dalla Cooperativa “La Meridiana” e realizzato con il contributo di un gruppo di imprenditori del territorio, «viene lasciata alla persona – continua Zanetti – la possibilità di scegliere il proprio ritmo, di fare delle scelte rispetto alla propria quotidianità: dove stare, cosa frequentare, con chi passeggiare». Al villaggio vivono 64 persone con decadimento cognitivo di vario tipo e che hanno un’età che va da 50 ai 93 anni. Sono suddivisi in appartamenti, ogni residente ha la propria camera, il proprio bagno, una comunità all’interno della struttura dove scambiarsi opinioni, confrontarsi, innamorarsi. E poi c’è la vita del Paese dove il tempo e lo spazio sembrano dilatarsi. «Le persone quando entrano qui vengono descritte dai familiari come molto problematiche, intrattabili», racconta la psicologa Letizia Villa. «E invece a noi capita di vedere come al Paese Ritrovato le persone rifioriscono e questo, insomma, – conclude – cambia la loro qualità della vita».
La storia di Paolo, caregiver come mia madre
Paolo è un caregiver, come mia madre. Ha “convinto” sua moglie, affetta da Alzheimer, a trasferirsi nella struttura monzese. «Inizialmente non accettavo che potesse essere ricoverata, volevo che rimanesse sempre con me», racconta. Anzi, viveva il suo allontanamento «come un fallimento», una colpa. «Eppure ora mia moglie sta molto meglio e conseguentemente anche io e mio figlio», confida Paolo. La malattia di sua moglie al momento non sta progredendo «speriamo – conclude – possa durare il più possibile». Dal punto di vista generale, quello che gli operatori hanno osservato è che «tutte le espressioni di disagio in questo luogo vengono minimizzate, al netto di una terapia farmacologica che non viene aumentata», afferma la geriatra. «Non vengono utilizzati farmaci per far star bene le persone, ma tutto l’assetto del Paese – sociale, ricreativo, di vitalità e di stimolazione – è la parte terapeutica», conclude. La socialità per le persone coinvolte, malato e caregiver, è fondamentale, o almeno è che quello che ho imparato. In effetti, la sensazione (vista dall’esterno) di essere trascinati nell’abisso è vivida. L’Alzheimer travolge tutto, nomi, volti, realtà. C’è un brano di Enrico Ruggeri dal titolo Dimentico che racconta questa fragilità. Lo fa con parole semplici e dirette, mostrando – nel videoclip – i residenti del Paese Ritrovato. «Io lo so che sono stato un essere pensante /Un padre ed un amante /Marito, figlio e confidente /So che io ho vissuto la mia storia / Tra immagini che non ricordo più /Dimentico, dimentico chi sono stato prima /Ricordo e poi dimentico /Persone, cose, lacrime e sorrisi /Condivisi». Dimentico e poi ricordo, ricordo e poi di nuovo dimentico. Ma per quanto provi a razionalizzare tutto questo, l’abisso sembra sempre un po’ più profondo. E questo vale per tutti i soggetti coinvolti, nessuno escluso. Ed ecco che allora provare a condividerlo, esternarlo, renderlo visibile potrebbe portare a una qualche forma di sollievo. Almeno in parte.