È ancora braccio di ferro fra Savoia e Stato italiano sui gioielli della Corona. In un caveau della Banca di Italia, fra i viventi li ha visti solo Mario Draghi

Luigi Einaudi raccontò nei diari la loro consegna e i timori di De Gasperi. Su quel tesoro una scia di sangue e la leggenda di una maledizione

È su un foglio di carta bollata da 12 lire del 1946 che si disputa la questione principale dell’eredità Savoia, una contesa che da anni va avanti fra lo Stato italiano e gli eredi della ex famiglia reale che ne rivendicano la proprietà, e che proseguirà al tribunale civile di Roma il prossimo ottobre anche dopo la morte di Vittorio Emanuele IV. Su quel foglio è indicato l’inventario dei gioielli della Corona che appartenevano alla famiglia Savoia. Viene citato «un grande diadema a undici volute di brillanti, con 11 perle a goccia, 64 perle tonde e 1040 brillanti», (gioiello che apparve in numerosi ritratti della Regina Margherita e pure della Regina Elena). Il foglio è custodito con tutte le gioie nei caveaux sotterranei della Banca di Italia, e secondo stime ufficiose indica 6732 brillanti per oltre 10.000 grani, di cui 1.859 in una sola collana. Una delle quattro presenti nel Tesoro della Corona insieme a due braccialetti, orecchini, un grosso diadema e altri minori. Pochissimi però ne hanno potuto prendere visione. Fra questi il solo vivente è l’ex Governatore della Banca di Italia ed ex presidente del Consiglio, Mario Draghi.


Il sequestro del 1973 da parte di un pm e un capitano dei carabinieri poi assassinati

I gioielli furono consegnati alla Banca di Italia nel 1946 dal re di maggio Umberto II e lì sono tutt’oggi. Nessuno se ne interessò per decenni. Ma nel 1973 qualcuno sembrò vedere sulla giacca di una signora dell’alta borghesia romana una preziosa spilla , indossata da Mafalda di Savoia, sorella di Umberto II, al momento di salire in treno per essere condotta nel campo di concentramento nazista di Buchenwald, dove avrebbe trovato la morte. Quella spilla sarebbe stata consegnata da Mafalda stessa ad una fra le persone che l’accompagnarono alla stazione ferroviaria di Roma per l’ultimo tragico viaggio. Era stata trafugata dai gioielli della Corona? Si mosse su questi dubbi la procura della Repubblica, che si fece aprire forzieri e documenti sul Tesoro della Corona dalla Banca di Italia per fare una verifica e una ricognizione. Il pm che se ne occupò fu Antonino Scopelliti, che sarebbe poi stato assassinato nel 1991 dalla ‘ndrangheta. Con lui un capitano dei carabinieri Antonio Varisco, pochi anni dopo (il 13 luglio 1979) assassinato dalle Brigate Rosse. I due constatarono che tutti i gioielli erano al loro posto secondo l’inventario e fu deciso il sequestro giudiziario del bene lasciato sigillato comunque nei caveaux della Banca d’Italia. Ma la tragica fine di Varisco e Scopelliti è finita con l’alimentare la leggenda su una maledizione di quei gioielli.


Banca di Italia aveva difeso quelle gioie dall’assalto di Hitler

Già prima del 1946 però quei gioielli dei Savoia erano stati nascosti nei sotterranei della Banca di Italia. Fra il 1943 e il 1944 a salvarli furono alcuni funzionari della Banca centrale a cui li aveva affidati Vittorio Emanuele III per sottrarli alle razzie dei tedeschi di Adolf Hitler. L’unico a sapere dove fossero stati nascosti era l’allora governatore di allora della Banca d’Italia, Vincenzo Azzolini, e con lui un muratore, Enrico Fidani. Fu quest’ultimo a nasconderli in una grotta poi murata con il cemento all’interno dei cunicoli sotterranei scavati sotto via Nazionale proprio per ripararsi dalla guerra e fuggire in caso di bisogno dalla banca centrale. Azzolini e Fidani mantennero il segreto per tutto il tempo dell’occupazione nazista e con la liberazione di Roma nel 1944 riconsegnarono poi il Tesoro della Corona al Re e alla Regina ancora legittimamente in carica.

Luigi Einaudi

Dopo il referendum sulla monarchia in mano a Luigi Einaudi

Caduta la monarchia con il referendum e avendo abdicato Vittorio Emanuele III a favore del figlio Umberto II, i gioielli furono affidati all’allora governatore della Banca di Italia, Luigi Einaudi al momento dell’esilio dei Savoia. Lo ricorda nei suoi appunti lo stesso Einaudi. Era il 5 giugno 1946. «Il Re mi riceve come al solito e forse un po’ più serio, e mi comunica che in conseguenza degli avvenimenti egli desidera che le gioie così dette della corona non vadano immediatamente in mano ad un commissario, il quale potrebbe prendere dei provvedimenti affrettati e magari farne una distribuzione od un’assegnazione non conforme all’importanza storica delle gioie stesse. Me le fa vedere racchiuse in un cofano a tre piani. Trattasi delle gioie le quali erano portate dalle regine e dalle principesse di casa Savoia. Vi è il celebre diadema della Regina Margherita, accresciuto e portato poi dalla Regina Elena. Vi sono altri monili, fra cui mi cita quelli della principessa Maria Antonia (…) Egli desidera che esse siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto. La mia impressione è che egli dia dimostrazione di molto scrupolo, in quanto che potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale. Ad ogni modo il Re dice che di ciò potrebbe essere giudice l’autorità competente e che egli desidera che le gioie siano tenute a disposizione di chi di diritto».

Alcide De Gasperi

Il Tesoro preoccupava anche Alcide De Gasperi

Alle 17 di quel pomeriggio avviene la consegna: a portarli nell’ufficio di Einaudi, dove assiste anche il direttore generale della Banca di Italia, Donato Menichella, è il ministro della casa reale Falcone Lucifero. L’inventario viene fatto con la valutazione dei gioielli di Davide Ventrella, presidente della Federazione degli orafi. Le operazioni durano quattro ore esatte come spiega il verbale di consegna che viene chiuso alle ore 21. Il giorno dopo (6 giugno) Einaudi chiede di essere ricevuto dal presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, a cui riferire. Nei suoi diari Einaudi annota: «De Gasperi è evidentemente preoccupato. Si pone adesso il problema di che cosa sarà la Repubblica che si è voluta instaurare. L’impressione sua è anche quella che il Re abbia dimostrato grande scrupolo potendosi sostenere la tesi che le gioie siano cosa di famiglia e non del demanio dello Stato (…). De Gasperi conferma anche a me le sue impressioni di stima verso la persona del Re, il quale ha dato prova in questi due anni di leale osservanza delle norme costituzionali. Se a casa Savoia poteva in passato essere rimproverata la mancanza di fede, prognostici simili non potevano essere fatti per il Re Umberto II».

Antonio Scopelliti

L’unico che ha visto documenti e gioie: Draghi nel 2006

Nel 2006 la Regione Piemonte chiede di potere esporre il Tesoro della Corona in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino. Per farlo chiede a un deputato piemontese, Raffaele Costa, di scrivere al governatore della Banca di Italia, Mario Draghi, per avere il permesso di fare uscire quei gioielli dal caveau. Draghi prima di rispondere chiede alla procura di Roma se è ancora valido il sequestro con sigilli del 1973. La risposta è negativa, quindi quei gioielli possono muoversi da lì. Il governatore è in pratica il solo a prenderne visione dal 1946 a parte Scopelliti e Varisco. Draghi rispose che sì, i gioielli si sarebbero anche potuti muovere dalla Banca di Italia che ne restava il suo custode. Ma riteneva che “in considerazione della delicatezza della materia e della complessità del relativo quadro giuridico”, fosse opportuno prima “promuovere un raccordo con il Ministero per i Beni culturali”, e ovviamente capire anche chi avrebbe dovuto assicurarli e per che cifra per un eventuale esibizione pubblica. Non se ne fece nulla. E i gioielli sono ancora lì, al centro della contesa fra Savoia e Stato italiano.

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