I figli, l’amore, la droga. Vasco Rossi si racconta: «Le ho provate tutte tranne l’eroina. Avevo il terrore del palco. La svolta? La morte di papà»

Le letture di filosofia, i diari del padre internato in Germania, il carcere: il talento rock di Zocca intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera

Una vita che ne contiene mille, come tutte le autentiche rockstar, e che sarebbe facile e riduttivo definire spericolata. Ci sono i libri di filosofia e la droga, c’è il carcere e la disintossicazione, c’è Gino Paoli in una balera di provincia e le 36 volte a San Siro. La carriera e la vita di Vasco Rossi sono un percorso tortuoso ma illuminato, una rivoluzione necessaria a creare il proprio «sistema». Il cantautore di Zocca si è raccontato ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. E ha parlato dei suoi amori e del suo grande amore, della passione della musica e della paura del palco. Ma ha cominciato dalle origini, da quel nome che è negli anni è stato urlato a squarciagola dal pubblico di tutta Italia: Vasco.


La morte del padre

Giovanni Carlo Rossi viene internato in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, appena ventenne. Rischiò di rimanere ucciso nel campo di prigionia durante un bombardamento degli americani. «Cadde in una buca», ricostruisce oggi il figlio sulle pagine del quotidiano, «questo Vasco lo tirò su di peso e papà gli disse: “Se un giorno avrò un figlio, lo chiamerò come te”». E così fece nel 1952, 72 anni fa, quando nacque in provincia di Modena una delle più importanti rockstar italiane. Nel1979, ad appena 56 anni, “Carlino”, camionista, morì di fatica «mentre faceva manovra tra i silos del porto di Trieste». Un momento di svolta per Vasco, neanche 30enne: «Sono andato a prenderlo e qualcosa dentro di me è cambiato. Papà era un combattente, aveva detto no ai nazisti. È entrata dentro di me una forza che prima non avevo, e che si è fusa con la malinconia, la gioia, l’amore per la musica di mia madre. E mi sono detto: qui non si scherza più. Qui mi gioco tutto. Mi rischio la vita». Suo padre teneva un diario, che il cantautore ha riletto da poco. Dentro c’è l’orrore del lager, che torna in superficie a ogni pagina: «Non aveva studiato, non era mica uno scrittore, ma aveva visto i suoi compagni morire di fatica e di botte: cose talmente terribili che voleva testimoniarle. E io le ho assorbite». Ogni parola pesa e, pur non volendosi giustificare, spiega: «Leggo cose superficiali, in cui non mi riconosco. Io sono semplice, non facile. Mi hanno dato del sionista, ma io non so neppure cosa voglia dire. Questo ovviamente non mi impedisce di piangere le vittime civili di Gaza, e di criticare i bombardamenti di Netanyahu, che è pure lui una specie di fascista».


La droga e il carcere

Come tutte le icone, Vasco è stato anche un bersaglio. Per i suoi eccessi e le sue fragilità, fardelli del personaggio e dell’uomo. Molto amato? «Si, ma anche molto odiato. Dai perbenisti, dai benpensanti. Mi sputavano addosso per strada. Ero il drogato. Il capro espiatorio dei primi anni Ottanta». E nelle montagne russe della sua storia, c’è anche la galera. Fece cinque giorni in isolamento, poi altri 17 di carcere. «Solo De André venne a trovarmi, con Dori. Pannella mandò un telegramma», ricorda ora, «fu l’occasione per resettarmi. Mi sono disintossicato da solo, senza bisogno di andare in comunità. Dopo la galera sono tornato a casa, a Zocca, e non ne sono uscito per otto mesi. Senza anfetamine non riuscivo ad alzarmi dal letto. E in tanti erano contenti». La musica che da passione diventa tutta la sua vita, e gli psicostimolanti diventano una scorciatoia per continuare a scrivere, a lavorare, non fermarsi mai. «Poi ho capito che le anfetamine sono pericolose», continua il suo racconto, «ho sperimentato la mia psiche, sono entrato nella mia mente, ho fatto un viaggio dentro la mia coscienza. Le sostanze stupefacenti le ho provate quasi tutte, tranne l’eroina. Mettere l’eroina sullo stesso piano della marijuana è criminale».

La famiglia

Tre figli, tre donne diverse. Una di loro è venuta a mancare pochi giorni fa, Gabriella Sturani, la Gabri della sua celebre canzone del 1993. Tante storie di sesso, il primo amore da adolescente con Paola, «una femminista che si era prefissata di distruggermi, e ci è riuscita» e l’ultimo con Laura, moglie e madre di Luca. In mezzo però, anche altri due bambini: Davide e Lorenzo, nati nel 1986 a distanza di pochi mesi. «Avevo avuto una storia con una ragazza bellissima, Gabriella, che purtroppo è mancata qualche giorno fa, all’improvviso. L’avevo lasciata, per vivere fino in fondo la mia avventura con la musica, ma mi ero preso cura di lei», srotola i ricordi Vasco, «quando tornai, la rividi nella roulotte prima del concerto, e la salutai con affetto, per l’ultima volta. Mesi dopo mi dissero che era incinta. Qualche tempo dopo, però, venne a Zocca un’altra ragazza, Stefania. Una che neppure ricordavo. E aveva un bimbo nel passeggino». Il cantante non ci crede, è convinto di non essere il padre. Ma per il secondo nato, il tribunale gli impone il test del dna, che conferma la paternità di Davide. Anni dopo anche Gabriella gli chiede di farlo, così riconosce anche Lorenzo. Con grande gioia del suo avvocato: «È un miracolo, sapesse signor Rossi la fatica che ho fatto io a diventare padre». Poi è arrivata Laura, sua moglie: «Con Laura ho realizzato il progetto di famiglia. La passione dura sei anni, massimo sette. Poi subentra l’amore per il progetto. Ti rendi conto che sei diventato padre quando daresti la vita per salvare quella di tuo figlio».

Dalla paura di salire sul palco al desiderio di morirci

Vasco Rossi racconta come riempire per la prima volta San Siro fu una svolta per la musica italiana, un messaggio per gli organizzatori dei concerti che anche gli artisti italiani potevano farlo, non solo le grandi star internazionali. Un successo che non è stato facile da realizzare: il cantante era in ansia prima di salire sul palco. «Ansia? Ero terrorizzato! Ogni sera mi violentavo per salire sul palco. Infatti dovevo bere per farmi coraggio, arrivare quasi ubriaco, “diversamente lucido” diciamo. Prima non mi divertivo sul palco, e cercavo il divertimento dopo il concerto. Adesso mi concentro del tutto sul presente. E dopo il concerto mi faccio una doccia e vado a dormire». Una considerazione che gli permette una battuta: «Prima pensavo di morire giovane, adesso invece vorrei morire sul palco». A decidere quale tipo di artista diventare, è servito vedere l’esibizione di un suo collega: «Andai a sentire Gino Paoli da ragazzo, al Piro Piro, una balera di provincia. Lo ascoltai cantare Non andare via, la sua versione di Ne me quitte pas di Jacques Brel. A quel concerto capii la differenza tra cantante e interprete, e mi dissi: “Io nella vita voglio fare questa cosa qui”». A Cazzullo, Vasco conferma anche la sua passione per gli scritti di filosofia: «Vita spericolata viene dal vivere pericolosamente di Nietzsche. Leggere Aut-aut di Kierkegaard, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, la Critica della ragion pura di Kant mi ha cambiato la vita. I grandi filosofi sono molto più facili di quelli che hanno scritto su di loro».

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