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Medicina, lo stop al test di ingresso bocciato dai Giovani Medici: «Non servono più laureati, ma professionisti nel pubblico» – L’intervista

17 Ottobre 2024 - 19:09 Ygnazia Cigna
Medicina, addio test di ingresso. intervista antonio cucinella
Medicina, addio test di ingresso. intervista antonio cucinella
Il presidente dell'associazione Antonio Cucinella a Open: «Vi spiego perché è una proposta che rischia di peggiorare l'attuale sistema»

Con l’obiettivo di rendere più accessibile il percorso di studi in Medicina, il governo ha proposto una riforma significativa che punta ad abolire il tradizionale test di ingresso. Al suo posto, verrà introdotto un semestre ad accesso libero e il proseguimento degli studi dipenderà dai risultati ottenuti in questi sei mesi, che andranno a comporre una graduatoria di merito a livello nazionale. Il governo intende introdurre la novità a partire dall’anno accademico 2025-2026, ma tutto dipenderà dall’iter legislativo. Il testo è già stato approvato dalla commissione Istruzione del Senato e ora deve passare in Aula. Questa riforma sul test di ingresso, fortemente voluta dalla ministra dell’Università Anna Maria Bernini, solleva un acceso dibattito tra esperti e studenti. Per approfondire gli aspetti considerati controversi di questa riforma e le sue implicazioni future, abbiamo intervistato Antonio Cucinella, specializzando in anestesista e presidente dei Giovani Medici per l’Italia, associazione ascoltata anche in Commissione del Senato in merito alle proposte di modifica per l’accesso a Medicina.

Abolizione del test d’ingresso a Medicina a favore di un semestre ad accesso libero con graduatoria: un passo avanti o indietro?

«Un passo indietro. Prima di tutto, perché introduce la soggettività nella valutazione. Il test nazionale unico attuale per entrare a Medicina è standardizzato e viene corretto da dei macchinari, quindi in modo imparziale e oggettivo. Con le modifiche di questa riforma, che valuterà gli studenti sulla base dei sei mesi di studio ad accesso libero, si introduce una componente soggettiva: le differenze di preparazione e di approccio dei professori e tra le diverse università potrebbero creare disparità e iniquità, a discapito degli studenti. Oltre al fatto che potrebbe favorire l’emergere di raccomandazioni e favoritismi».

Il test d’ingresso attuale è oggetto di numerose critiche, poiché si ritiene che avvantaggi chi può permettersi i corsi di preparazione. Se eliminare il test non è una soluzione, quale alternativa può garantire un accesso più equo e accessibile a Medicina?

«Mantenere il test di ingresso unico nazionale, ma con alcune migliorie. Anzitutto, è fondamentale garantire simulazioni gratuite – ne proponiamo almeno due – per tutti gli aspiranti studenti. Riguardo al programma di studio, il Ministero dovrebbe fornire una bibliografia ufficiale da cui le domande possano essere tratte. Sarebbe utile, inoltre, offrire testi di riferimento in formato digitale e gratuiti per tutti, così da assicurare che anche chi non ha le risorse economiche per seguire corsi di preparazione abbia comunque a disposizione gli strumenti necessari per prepararsi adeguatamente

Un altro problema del test sono le domande, considerate poco pertinenti o formulate in modo controverso.

«Per risolverlo si dovrebbe ricorrere a società terze, sempre sotto la supervisione del Ministero, per la redazione annuale di diversi set di domande. Queste dovrebbero essere chiare e strettamente aderenti al programma di studi. Inoltre, le domande andrebbero riformulate in modo tale che ci sia sempre una sola risposta corretta, evitando quelle situazioni problematiche, ampiamente note, in cui ci sono più opzioni valide e bisogna scegliere la risposta “più corretta”».

Abbiamo parlato della fase pre-universitaria. Ma una volta entrati all’università, qualora la riforma passasse, l’accesso libero nei primi sei mesi avrebbe un impatto sulla qualità della formazione offerta agli studenti?

«Senza dubbio. Già ora, il personale docente è carente e la situazione rischia di peggiorare. Aumentare il numero di studenti senza prevedere un adeguato supporto finanziario per le università, sia per l’assunzione di nuovo personale docente che per il potenziamento delle strutture, non è sostenibile. Un modello di formazione che non tiene conto di questi aspetti è destinato a fallire».

Riguardo al mercato del lavoro, da più fronti arriva l’allarme carenza di medici. La ministra Bernini, ha dichiarato che la nuova riforma «permetterà di formare almeno 30mila nuovi medici nei prossimi anni». Questo ddl contribuirà quindi a creare un modello universitario più funzionale al mercato del lavoro?

«È proprio qui il cortocircuito e il motivo per cui si tratta di una proposta solo populista. In Italia non vi è carenza di medici intesi come laureati in Medicina e Chirurgia. Anzi, nel nostro Paese, questo numero è superiore alla media europea. Quando si parla di medici che mancano nei reparti, si fa riferimento ai medici specialisti assunti nel Servizio Sanitario Nazionale».

Come siamo arrivati a questo punto?

«Questa carenza è dovuta a un’insufficiente numero di borse di specializzazione. Prima del 2019, si era creato un imbuto formativo: ogni anno si laureavano molti più studenti in medicina e chirurgia rispetto al numero di posti disponibili per la specializzazione. Fortunatamente, dopo il Covid, i governi hanno preso coscienza della gravità della situazione e hanno stanziato un numero adeguato di borse di specializzazione».

Che futuro si prospetta quindi agli studenti di Medicina? Quanto agli ospedali, invece, avranno un numero adeguato di medici?

«Ci aspettiamo un numero eccessivo di medici. Per capire il motivo, bisogna tornare al 1969, quando fu abolito il numero chiuso per accedere alla facoltà di Medicina, causando un ingresso massiccio di studenti. Questo sovraccarico ha reso difficile formarli adeguatamente, portando negli anni a seguire il governo a una rapida reintroduzione del test di ingresso a numero programmato. Oggi si stima che circa 35mila medici, tra specialisti e medici di famiglia, andranno in pensione dal 2023 al 2027, con un progressivo ritorno della normalità nel 2030. Se continuiamo con il numero attuale di nuovi studenti di medicina, avremo circa 141mila nuovi laureati. Questo, però, comporterà che nel 2030 avremo circa 32mila nuovi medici in più rispetto a quanti ce ne serviranno. Questi calcoli tengono già conto della necessità di assorbire le attuali carenze di personale del Ssn».

Il rischio è quindi avere un surplus di medici laureati che, però, non troveranno occupazione?

«Non solo avremo una quantità eccessiva di medici formati, costati miliardi allo Stato, ma gli stessi si troveranno costretti a emigrare in altri Paesi europei per cercare lavoro oppure ad accettare contratti molto precari e mal retribuiti nel settore sanitario privato. Pertanto, abolire il test di ingresso ora non risolverà di certo la vera carenza, che riguarda i medici specialisti. Oltre al fatto che si pone poca attenzione su un’altra vera e cruciale esigenza: gli infermieri. L’Italia è tra i Paesi con il minor numero di laureati in infermieristica».

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