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Luca Telese e la fine dell’amore con Laura Berlinguer: «Noi vittime della pandemia e di lutti non condivisi»

Luca Telese
Luca Telese
Il giornalista racconta del figlio e del suo passato da militante Pci

Il matrimonio tra Luca Telese e Laura Berlinguer è finito. Per colpa della pandemia, dice lui oggi in un’intervista al Corriere della Sera. Nel colloquio con Elvira Serra il giornalista, direttore e conduttore tv racconta come l’ha conosciuta: « Eravamo due ragazzi, lavoravamo a un programma demenziale, Cronache Marziane: non ci eravamo scambiati i certificati anagrafici. L’amore per la Sardegna ha contato dopo, quando abbiamo preso casa ad Alghero». Il nome di loro figlio (Enrico) lo ha scelto lui: «Laura ha acconsentito solo perché il cognome sarebbe stato diverso da suo padre. Enrico, il frutto più bello della mia vita, ha idee chiare: non vuole fare il giornalista. Io lo chiamo il prezzometro: se vede un paio di scarpe, un quadro o un mobile lui sa subito quanto costa. Sa valutare le cose belle».

Io, Laura ed Enrico

Telese spiega perché Francesco Cossiga non è stato il loro testimone di nozze: «Lui non c’era più e comunque Laura non voleva “vip”. Ci siamo sposati con gli amici stretti a Labico, nella campagna laziale. Io avevo appena perso mio padre, e poco dopo è mancata la madre di Laura, la signora Letizia: abbiamo fatto in tempo a farle vedere le foto sull’iPad. La sua famiglia aveva adottato i miei: sarò sempre grato per questo». Poi spiega perché è finita: «Siamo stati vittime della pandemia, come tanti altri, più il peso di lutti non condivisi. Amore forte e passione per nostro figlio non sono bastate. Ora ho una splendida compagna, Miriam: fa tutt’altro, lavora all’Enel».

Un militante

Prima di diventare giornalista è stato militante Pci: «Sono cresciuto nelle sezioni, i miei erano due iscritti. Mia mamma era anche femminista. Ero con lei in strada quando fu uccisa Giorgiana Masi, a pochi metri da noi: avevo 7 anni. Mamma, disperata, citofonava per metterci al riparo. Qualcuno dalle finestre lanciava limoni per ridurre l’effetto urticante dei lacrimogeni sugli occhi». Poi ricorda che alle feste di tesseramento nella sezione di Monteverde «Gianni Rodari: raccontava favole e faceva disegnare noi bambini sul retro dei manifesti. Una volta i maestri comunisti invitarono nella mia scuola Alberto Moravia per il suo libro sull’Africa, una noia mortale. Quando lo dissi a mio padre mi tirò uno schiaffo: “Vergognati — disse —: è un intellettuale che si è messo a disposizione”».

Il funerale di Berlinguer

Racconta il funerale di Enrico Berlinguer: «Nel 1984 abitavamo a Cinecittà Est. Dalla mia stanza mi affacciavo al Raccordo anulare per vedere se arrivava il pullman dal Sud e andare con i parenti di Torre. Il giorno dopo, feci la tessera della Fgci: avevo 14 anni». E adesso il mercoledì conduce “Sognatori” su La7: «Nel programma racconto storie di imprese straordinarie, da Brunello Cucinelli a Donnafugata a Renzo Rosso. Amo Rosso, che quando in America fallì, aveva già in mente i jeans che l’avrebbero reso ricco». Tra i colleghi ricorda Marco Travaglio: «Un genio, un computer umano. Carismatico, un po’ gesuita. Abbiamo litigato dopo un titolo per la sua sbornia beppegrillina. Forse oggi su quello mi darebbe ragione».

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