Giordano Bruno Guerri ha fatto il ’68 «per il sesso. E le mie viziosità gay me le sono inventate»


Giordano Bruno Guerri ha fatto il ’68. Ma l’ha fatto «per il sesso. Prima del Sessantotto, poca roba, trascurabile; dopo, tantissima». E nell’intervista che rilascia al Corriere della Sera spiega la rivoluzione sessuale in un’immagine: «Io con una donna su una panchina di Parco Sempione, circondato da guardoni di ogni tipo e altri impegnati in attività analoghe alla mia. Soprattutto omosessuali». Dice che non ne era infastidito, anzi. Mentre con gli uomini «Ho fatto delle cose, sì. Ma molte meno, e di tipo decisamente diverso, di quelle di cui parlai in un’intervista che diedi anni fa, quando mi inventai rapporti omosessuali di ogni tipo per rispondere a modo mio a un colonnino che era uscito sul Foglio di Giuliano Ferrara, in cui si elencavano presunte e analoghe viziosità del sottoscritto».
La vita e la carriera
Nel colloquio con Tommaso Labate il saggista spiega di essere figlio unico di una famiglia contadina di Iesa, frazione di Monticiano, in provincia di Siena: «Etrusco al cento per cento senza contaminazioni, visto che nel 1980 il Cnr stabilì con una ricerca che negli ultimi tremila anni in quell’area non c’erano stati né migranti né immigrati». È stato per anni «figlio di Gina Guerri e n.n.», perché sua madre e il padre Febo Anselmi stavano insieme da quando erano ragazzini ma non erano sposati. «Solo che tornato dalla Guerra, durante la quale si erano scambiati decine di lettere d’amore, di fronte alla prospettiva di sposare la ragazza con cui stava da sempre mio padre si sentì come se la sua vita stesse per finire. Un giorno che era andato a ritirare lo stipendio si invaghì di una dipendente delle Poste che vide bionda, truccata e bellissima. E sposò lei».
Il pentimento
Poi se ne pentì, ma le cose non potevano andare così lisce: «Quando mia mamma decise di perdonare mio padre, a Iesa fu un tema di dibattito a tutti i livelli e a tutte le latitudini. Il padre e i fratelli la corcarono di botte pur di farla desistere. Ma lei niente, se lo riprese. Non essendoci ancora il divorzio, mio papà non poteva separarsi dalla moglie. Né riconoscere me quando poi sono nato, perché sarebbe finito in galera per il reato di concubinato. Quando i miei genitori si sono finalmente potuti sposare, diventai Giordano Bruno Guerri Anselmi. Ma ero già grande: al loro matrimonio ho fatto il fotografo».
La pace
Poi la situazione si è pacificata, più o meno: «Sono nato il 21 dicembre, il giorno dell’uccisione del maiale, che per i contadini è il giorno più importante dell’anno. Sono arrivato in anticipo perché la nonna era caduta dall’albero mentre raccoglieva le olive; e mia mamma, incinta di nove mesi, chiamata a dare una mano al posto della nonna infortunata, forse s’era affaticata troppo. Sono ancora fiero del miracolo che ho reso possibile nascendo quel giorno e non dopo». Ovvero: «Ho allungato di otto giorni la vita di quel maiale».
Oggi, spiega, è animalista a modo suo: «Convinto oltre ogni ragionevole dubbio che tra qualche secolo le atrocità che abbiamo riservato agli animali, compresa quella di ucciderli per mangiarli, saranno considerate alla stregua di quelle perpetrate a danno delle persone». Ma rimane un consumatore ipocrita di carne: «Non mangio quella che nel piatto conserva le fattezze dell’animale com’era in vita. La coscia di pollo non la mangio. L’hamburger sì».
Il nome
Il suo nome, Giordano Bruno, non viene da una famiglia anticlericale: «Al contrario, famiglia cattolica. Il nonno paterno disse “ho sognato il povero Giordano, m’ha detto che se lo chiamiamo come lui è felice”. Quello materno però replicò che aveva sognato “il povero Bruno”, anche lui felice della futura omonimia del nascituro. Da lì, Giordano Bruno. Il prete, sentito il nome, bruciò di rabbia e si mise a raccontare di come Giordano Bruno era stato un nemico della Chiesa. Il mio nonno paterno lo fulminò con una battuta: “Ovvia, ‘un ci vorrete mica brucià anche questo!”».
La sigaretta
Rivela di essere finito in galera per una sigaretta: «Dopo una manifestazione portarono parecchi di noi in questura. Per ingannare l’attesa mi accesi una sigaretta. Un poliziotto, che a sua volta stava fumando, mi ordinò di spegnerla ché lì era vietato fumare. “E lei?”, gli chiesi indicando la sua. Mi fece sbattere in cella». Poi parla del suo saggio su Maria Goretti, che La Nave di Teseo ripubblica oggi a 40 anni dalla prima uscita: «Quello fu un colpo di fortuna. Ero a Latina a lavorare per una mostra sui cinquant’anni della fondazione della città. In una caserma dei carabinieri, sbattei il muso contro l’incartamento segretissimo del processo di canonizzazione di Maria Goretti, che doveva stare in Vaticano e non là».
Santa Maria Goretti
Era finito lì a causa di uno «scambio di faldoni. I documenti del processo a carico di Alessandro Serenelli, il ragazzo che aveva ucciso l’undicenne Maria Goretti dopo aver tentato invano di violentarla, dovevano stare nell’archivio dei carabinieri ma erano finiti in Vaticano; il faldone della canonizzazione della ragazza, che doveva essere custodito dalla Santa Sede, aveva fatto il percorso inverso». Il Vaticano reagì malissimo. «E il libro vendette, subito, le prima centotrentamila copie». Le fa piacere essere annoverato tra gli intellettuali di destra? «La parola “intellettuale” mi fa cacare». E il «di destra»? «Anche. Odio il conservatorismo. Ho molti pensieri di destra, certo; ma anche molti pensieri di sinistra». Tipo? «Sono per l’eutanasia e i matrimoni gay».