Signor Conti ci ripensi, 30 artisti in gara a Sanremo sono troppi

«Non credo di riuscire a stare nei 26 Big come previsto dal regolamento, ma di arrivare a 28 o anche a 30», la dichiarazione di Carlo Conti ha creato non pochi brividi. Va bene che Sanremo ha anche il compito, sacrosanto, di inquadrare la situazione della musica italiana per celebrarla sul palco, e l’odierno mercato discografico italiano è certamente andato in overbooking da un pezzo, ma la più importante manifestazione del palinsesto musicale italiano ha (avrebbe) anche la possibilità di fare bella mostra di un altro modus operandi, di dimostrare, come è in grado, che dar spazio alla qualità, irrigidendo la selezione dei brani e il numero dei big, può anche non fare questa grande differenza.
Le grane di Sanremo
Sanremo è un evento di tale portata che potrebbe volare alto su certi problemucci. Per esempio: è davvero così necessario incassare record di share televisivi mentre la tv, specie quella di stato, è già accasciata morente a terra, infilzata dalle piattaforme? E se si, perché immaginiamo che per Carlo Conti sia importante, davvero dobbiamo arrivarci a discapito della salute della musica italiana? No, perché, al netto di orari impossibili per tutte le parti in causa, della serie «che ci frega, restiamo alzati un po’ di più, d’altra parte è la settimana del Festivàl», ingolfare di canzoni Sanremo è un danno che si riflette su tanti aspetti della discografia, infierendo su una ferita aperta e infetta che ha già creato danni che si spera, ma mica riponiamo chissà quale fiducia, siano riparabili.
Quel che è certo, forti dell’esperienza settimanale con la nostra rubrica di recensioni della domenica, è che la promozione di più canzoni non vuol dire dar più spazio alle canzoni, significa, anzi, il contrario.
L’incentivo ad allungare la scaletta
Chiariamo a chi non è troppo avvezzo con i meccanismi della tv: Conti non sceglie 30 canzoni perché ha ricevuto 30 capolavori, sceglie 30 canzoni perché quelle canzoni porteranno 30 o più volti sullo schermo e ciò gli permetterà di bloccare più fette di target sul divano e di evitare di smistare troppi no alle major, con tutti i vantaggi che ne conseguono. Vantaggi per la Rai, per lui, non per tutti quegli artisti, la stragrande maggioranza a prescindere dall’entità del nome, che andranno al Festival per farsi spremere e buttare via una canzone. Non per il marchio Sanremo, sicuramente, che da questa situazione esce fortemente depotenziato.

Il pubblico
La prima parte “lesa” di conseguenza alla folle scelta è sicuramente il pubblico, inchiodato (per chi ce la farà) fino a tarda notte davanti allo schermo. E ci sarà permesso perlomeno dubitare del fatto che una buona esibizione all’una del mattino possa stuzzicare lo stesso interesse, lo stesso entusiasmo, che avrebbe trasmessa alle 22:30. Davanti allo schermo, tra l’altro, ascoltando esclusivamente canzoni, perché con 30 esibizioni in ballo i tempi per il resto dello show, per quel minimo di varietà, si riducono all’osso.
Non che sia una grandissima perdita, le gag sanremesi sono quanto di peggio, televisivamente parlando, partorisca di solito la Rai, manifestazione plastica dell’inadeguatezza alla contemporaneità degli autori della tv di stato, ma perlomeno c’era il tempo di assorbire un pezzo, di discuterlo, di televotarlo (che quanto ci piace a noi italiani televotare!) o, perlomeno, di fare una pausa bagno. Spiace, se non volete perdervi un brano della playlist di Sanremo ’26 dovrete munirvi di pappagallo o testare i confini della resistenza della vostra vescica, perché si andrà serratissimi.
Gli artisti in gara
Il prestigio di andare in gara al Festival della Canzone Italiana di Sanremo è rimasto immutato nel tempo ma il motivo per cui andare in gara al Festival della Canzone Italiana di Sanremo è cambiato. Si, ok, Sanremo può renderti famoso verso un pubblico generalista per cui, ogni anno, gli sconosciuti si moltiplicano, considerata la moderna e appropriata separazione del mercato discografico da quello televisivo; ma soprattutto è utile per alimentare l’unica economia che tiene in piedi la baracca, quella dei live. Molti potrebbero pensare che 30 artisti in gara vuol dire concedere un pizzico di visibilità a più artisti, magari anche bravi, ma si tratta di una banale illusione, la stessa che cela la democrazia impazzita del mercato discografico moderno, un’equazione sbagliata che sta uccidendo settimana dopo settimana, un pezzettino alla volta, la musica italiana.
Quella giusta prevede invece un rapporto inversamente proporzionale tra cantanti in gara a Sanremo (così come uscite settimanali) e attenzione che il pubblico, fisiologicamente, può dedicare alle canzoni. Internet è un pozzo senza fondo, l’attenzione del pubblico no, ad un certo punto si ferma, si confonde, si perde la trama, non ce la fa proprio. Questo flusso ininterrotto non fa altro che intervenire a gamba tesa nel rapporto tra musica e ascoltatori: non c’è più tempo di affezionarsi ad un brano, anche del proprio artista preferito, perché il tempo di ascoltarlo le volte che servono per imparare il testo a memoria, come accadeva un tempo, lo stesso artista è fuori con un altro.
Pensate questo processo che si concretizza con 30 canzoni diverse in una sola settimana. Il ritmo è letteralmente insostenibile.
La svalutazione del marchio Sanremo
Tutti parlano di Sanremo come unica e ultima vetrina della musica italiana. Tutto verissimo, non esiste un evento di costume anche solo lontanamente paragonabile, sotto ogni punto di vista possibile, al Festival. Questo è dovuto alla storia del fenomeno, ok, ma anche al fatto che Sanremo è un evento esclusivo, la finale di un concorso con tantissimi partecipanti, quasi tutti quelli che praticano musica in Italia a un livello medio-alto. L’esclusività gioca un peso fondamentale, se si spalancano le porte spropositatamente e, come accade spesso, a sproposito, Sanremo finirà presto ad avere il peso specifico di una di quelle passerelle per hit estive brandizzate, quelle che imperversano impietosamente durante la bella stagione sull’Arena di Verona e delle quali non frega niente a nessuno. E questo per la musica italiana sarebbe un danno clamoroso.
Essere Sanremo
Sanremo deve prendersi la responsabilità di essere Sanremo, di dire no. La tv è come un ristorante, al cliente non si dice mai di no, si sa, ma Sanremo deve essere conscio di rappresentare una eclatante eccezione. Dire no al pubblico che vuole le hit radiofoniche estive anche d’inverno, che pretende l’intrattenimento a tutti i costi. Dire no a tutti quegli artisti che intendono cantare la solita variazione sul tema pop, con il solito sound e i soliti autori, giusto per bagnarsi il becco di quella luce riflessa. Dire no agli artisti che portano share, perché famosi, ma che poi non hanno canzoni all’altezza, cosa che succede con imbarazzante regolarità.
E d’altra parte, se parliamo di cliente, questo ha già dato l’anno scorso chiarissime indicazioni mandando sul podio Olly, Lucio Corsi e Brunori SaS: un nuovo teen idol e due cantautori eccellenti, intellettuali, che provengono dall’universo indipendente. E bocciando starlette e professionisti delle riviste patinate. Tre che, così, per dire, per riempire i propri live, presi dalla disperazione, non hanno distribuito biglietti a prezzi stracciati. Quindi si: «Si. Può. Fare».

I precedenti
Questa delle liste lunghissime è una novità introdotta da Amadeus, prima di lui solo edizioni con eliminazioni dopo la prima serata arrivavano a certe cifre di artisti coinvolti. Amadeus invece, conscio dei vantaggi di allungare il brodo in termini sia di share che di raccolta pubblicitaria, ha spalancato furbescamente le porte dell’Ariston.
Una mossa evidentemente piaciuta a Carlo Conti, cui necessità di abbracciare su quel palco così tanta gente risulta una novità, infatti nei tre precedenti alla guida di Sanremo, edizioni 2015, 2016 e 2017, ha portato in gara rispettivamente 20, 22 e 22 artisti. Oggi, magicamente, sente l’esigenza di esagerare, un po’ strano, no? Ma il punto, intendiamoci, non è avere più musica nelle orecchie, il problema è averla di qualità.
La qualità, spiace smentire pessimisti di default e nostalgici modugnani, in Italia, oggi, esiste eccome. Il mercato però si è fatto più trafficato e complesso, è più difficile per gli artisti diventare personaggi o, televisivamente parlando, portatori sani di share. Sarebbe ugualmente un disastro, ma se Conti ci proponesse 30 canzoni effettivamente imperdibili, un’apoteosi e celebrazione della nostra più sbrilluccicante tradizione, ci sarebbe solo da star zitti e ringraziare. Il problema si materializza quando nella lista, ci riferiamo allo scorso anno per esempio, si trovano nefandezze che non fanno altro che rubare tempo a chi guarda o lavora il Festival e ore di sonno a chi lo guarda da casa.
Come è andata l’anno scorso
Prendiamo in esame la scorsa annata, Conti dichiarò senza paura o tentennamento alcuno, senza nemmeno lasciarsi scappare una risatina sotto i baffi, da grande professionista della tv quale è, che «Sono tutte canzoni meritevoli». Bene, analizziamo al volissimo queste canzoni «meritevoli»: Domani di Emis Killa (scelta ma poi il rapper milanese si è ritirato) è un pezzo poi uscito e già dimenticato, Pelle diamante di Marcella Bella è risultata utile solo come meme musicale, Febbre di Clara, così come Fuorilegge di Rose Villain, Amarcord di Sarah Toscano, Tu con chi fai l’amore dei The Kolors, Dimenticarsi alle 7 di Elodie, sono tutte hit minuscole e riuscite malissimo e alle quali non serviva a niente la spinta del Festival, bastavano una manciata di passaggi radiofonici ed eravamo tutti contenti.
Su Damme ‘na mano di Tony Effe caliamo un velo pietoso, inutile infierire su un’operazione così offensiva e che poi non ha portato alcun risultato, un flop che si misura in metri di teloni per coprire i giganteschi buchi lasciati dal pubblico al Circo Massimo. Chiamo io chiami tu di Gaia più che servire a lei è servita al coreografo dell’annesso balletto, Tra le mani un cuore, il brano d’eccellenza scritto da Tiziano Ferro ed interpretato da Massimo Ranieri non si sa che fine abbia fatto, Non ti dimentico dei Modà ha solo ricordato al mondo che i Modà esistono ancora, Viva la vita di sicuro la peggior performance di Francesco Gabbani in un luogo, l’Ariston, dove ha sempre fatto magnifiche figure.
Ora, ci siamo chiesti senza che, ovviamente, nessuno ci abbia dato risposta: ma sotto quale punto di vista, se non quello di portare volti familiari al pubblico, queste canzoni, tutte tra l’altro finite nei bassifondi della classifica finale, erano «meritevoli»?
Caro Carlo, per favore, ripensaci
L’impressione è che anche quest’anno potrebbe ripetersi una situazione di questo tipo, con una decina di canzoni gradevoli, di queste un paio ottime, e poi il vuoto cosmico del pop italiano che si plastifica sul palco per rubarci una spropositata quantità di tempo. Signor Conti, ci ripensi, pensi alla qualità, pensi a rendere il Festival di Sanremo un posto in cui la musica non è solo un pastone insapore per il mercato ma elemento artistico imprescindibile.
E se è lo share che la preoccupa, e lo capiamo, noi la riportiamo all’ultima battuta finale di un film sul Festival di Sanremo, tra l’altro da sempre estremamente sottovalutato: Gole ruggenti, regia del maestro Pier Francesco Pingitore, che dice: «In fondo il Festival è come il fumatore di spinello: tira sempre».
