Avere diciott’anni all’Aquila. Allora e adesso – Il video

Open ha chiesto di raccontare i dieci anni dal terremoto a chi aveva 18 anni nel 2009 e a chi ne ha 18 oggi.  Tra la voglia di restare e la decisione di farlo, e i progetti di vita altrove – per quanto a malincuore. «Nella mente di tutti noi aquilani quella notte è uno spartiacque. C’è un prima e un dopo, e nulla è più stato uguale»

A L’Aquila esiste un prima e un dopo, e questo non è il 2019. Questo è il 10 d.t.: il decimo anno dopo il terremoto. Il sisma è lì, uno spartiacque scolpito nella mente di tutti gli aquilani. Volenti o nolenti. È la descrizione di questi dieci anni nelle parole di Alessandro e Alessandro, rispettivamente 18 e 28 anni, aquilani e amici.


L’uno era un bambino, l’altro un adolescente, quella notte del 6 aprile 2009, quando la terra in Abruzzo ha tremato e ha portato via 309 vite, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e oltre a 1600 feriti. «È stata la notte più brutta della mia vita», racconta Alessandro. «Avevo otto anni. Abbiamo dormito in macchina, la gente era per strada, la luce non c’era, era tutto buio». 


Sono passati dieci anni, ma la memoria di quei giorni resta. Lo sciame sismico, la paura e quell’allarme su cui poi indagherà la magistratura. «Io ero in casa, avevamo deciso così e non lo rinnego. Non dico che dormivo, ma ero a letto», racconta l’altro Alessandro, che allora aveva 18 anni. «Siamo scappati via con la mia famiglia, abbiamo vissuto all’inizio nelle prime tendopoli, poi ci siamo spostati qualche mese sulla costa». È tra coloro che hanno sostenuto l’esame di maturità nelle tendopoli. «Data la situazione, abbiamo fatto solo l’orale. E da allora ci prendono in giro: finiremo come quelli del film Immaturi, a dover rifare l’esame perché il nostro diploma non è valido?», ride. 

6 aprile 2009, ore 3.32

Ricordano tutto. Le urla, la terra tremante, la fuga, i soccorsi, i volontari. Le passerelle dei politici e il fatto che da allora l’Italia si sia accorta che questa città esiste: «Ha cominciato a comparire anche nelle previsioni meteo», sorridono. Appena ha potuto, la famiglia di Alessandro è tornata all’Aquila. «E siamo andati a vivere nei moduli abitativi»: le famose casette di Silvio Berlusconi in periferia. «Una periferia non collegata a nulla», denuncia Giacomo, anche lui allora diciottenne. Quella notte? «Avevo 18 anni e non è che a 18 anni fai ragionamenti esistenziali. Mi sono solo preoccupato che i miei genitori stessero bene».

Giacomo e il centro storico de L’Aquila

Per il più giovane dei due Alessandro quella delle casette, polemiche o no, è stata la svolta: «La mia famiglia, come tante altre, è innamorata di questa che è la sua città, voleva tornare qua, e il prima possibile», dice il liceale. «E le casette hanno dato modo agli aquilani di farlo, in una situazione in cui gli affitti erano altrimenti altissimi». Sono 6.300 le persone che, dieci anni dopo, vivono ancora in quelle abitazioni. «Sono case in cui si vive anche bene», racconta Giacomo, che ci vive con la sua famiglia da nove anni. «Però sono piene di problemi». E «alcune sono state costruite male: solo pochi giorni fa è crollato un balcone, in un appartamento che per fortuna era già stato evacuato. Lo sanno, quali sono quelle a rischio», chiosa. 

E poi le famose casette sono nuclei abitativi sorti alle porte della città, alcune anche a una decina di chilometri di distanza dal centro. «E con i trasporti pubblici che non funzionano, è un attimo che si trasformino in ghetti». Giacomo ha 28 anni. Come il suo coetaneo Alessandro, che lavora nell’azienda famigliare – e al contrario di molti amici della stessa età – è qui che ha deciso di restare: «Il terremoto ha impoverito tutti. Ho scelto di restare perché sentivo che era giusto farlo. Ma ora, guardandomi indietro, ho un po’ di amarezza». Quella che era la sua casa, vicino al centro, è abbandonata, senza ponteggi, di notte luogo di rifugio per chissà chi. Non fraintendermi: in fondo poteva andare molto peggio, e questa città morire. Così non è stato. Ma con la ricostruzione ancora parzialmente bloccata, dieci anni dopo, non possiamo non pensare che abbiamo perso un’occasione. In quella che resta una tragedia enorme». 

5mila studenti in meno

Dal 2009 il capoluogo abruzzese, un tempo città universitaria, ha 5mila studenti in meno. Il crollo della Casa dello Studente – che ha ucciso otto ragazzi – segna in maniera indelebile il passato e il presente.  Un progetto affidato a quattro ragazzi universitari dovrebbe rilanciare quel luogo in cui oggi non c’è nulla. Solo il vuoto. «Ma chissà quando partirà», sospira Giacomo. «Speriamo presto».

«E il centro storico resta come imprigionato nella sua solitudine. Animato solo da pub e locali – e neanche tutti i giorni», dice ancora Giacomo. Non sono rientrati gli uffici pubblici, non sono tornate le scuole, sparse per il resto della città. Tanti sono i ‘vendesi’ e ‘affittasi’. 86 esercenti su 1000 sono rientrati con il recente bando Facciamo centro. «Ma alcuni di loro stanno già pensando di chiudere dopo pochi mesi», dice il titolare di un bar in centro. «Non ce la fanno. Non passa nessuno dal centro, non ci sono clienti». 

Alessandro e Alessandro, 18 anni e 28 anni

«Dopo pochi anni mi sono reso conto che non conoscevo i nomi delle vie e delle piazze della mia città», dice l’oggi diciottenne Alessandro. «Questa sensazione di straniamento rispetto alle proprie origini fa male a tutti». Innamorato della sua città ferita, sa già che, finito quest’anno il liceo classico, la lascerà. «Non vorrei, ma è una questione di opportunità. Che qui non ci sono». 

Ogni anno, nei giorni che precedono il 6 aprile, «la città cambia un po’. Si respira malinconia», dice l’altro Alessandro. «Questa volta ancora di più». Però «noi giovani siamo mobilitati per questo decennale», dice il suo amico 18enne. «Chi ieri era bambino e aveva otto anni come me, vive oggi tutte le contraddizioni di questa città ma vuole agire. Per questo la mobilitazione per il decennale è ancora più importante». 

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