Calenda: «Il giovanilismo in politica si schianterà. Zingaretti arruoli gli amministratori locali»

L’ex ministro e oggi candidato del Pd-Siamo Europei: «È un tratto di infantilismo dell’occidente. I 5 Stelle ne hanno fatto una bandiera. Ma neanche Salvini aveva mai amministrato nulla»

Pete Buttigieg ha 37 anni, è il sindaco di una piccola città dell’Indiana ed è ufficialmente in corsa per le elezioni presidenziali Usa del 2020 per i democratici. Alla sua età potrebbe diventare il presidente più giovane nella storia degli Stati Uniti. Troppo giovane? Più che altro senza la dovuta esperienza, secondo alcuni osservatori nostrani. 


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«Oggi paradossalmente viviamo in una società in cui chi non è ancora adulto è molto marginalizzato, ma in politica si ha la ricerca di figure sempre più giovani e sempre più inesperte», dice a Open Carlo Calenda, ex ministro dello Sviluppo Economico e oggi candidato nella lista Pd-Siamo Europei. Il suo tweet di commento alla candidatura di Buttigieg ha fatto discutere (come al solito). Ma lui tiene il punto: «È come se ci fosse una spasmodica ricerca della novità che però molto spesso si traduce in inesperienza, soprattutto quando c’è da gestire la complessità». 

Carlo Calenda, a cosa è dovuto quello che lei definisce ‘giovanilismo’? 

«Oggi l’esperienza e il fatto di essere maturi o anziani sono considerati un disvalore. Viviamo in una società in cui l’idea è che devi continuare a essere e comportarti come un giovane fino a 70 anni. Nei comportamenti individuali e in quelli pubblici». 

E non potrebbe dipendere dal fatto che gli ‘adulti’ possano aver deluso, oggigiorno, in vari settori – a cominciare dalla politica? 

«Certo, c’è anche questo elemento. Ma secondo me la questione è collegata piuttosto a una scelta di costume, non tanto a una questione di risultati. Un costume dell’occidente, che ha ormai abbandonato l’idea che avere un’esperienza ed essere anziani sia un valore. Si vede dalle pubblicità, ma anche da alcune ossessioni in politica, per esempio: qualunque rappresentante politico deve sapere correre una maratona, per esempio, ma a nessuno gliene frega niente se ha mai letto un libro.

È un tratto di infantilismo dell’occidente. Penso invece che, a prescindere dalle attitudini personale, solo il cursus honorum permetta di non bruciarsi. Funziona così, ma è un principio che oggi sembra non avere più valore in politica». 

E però anche in Italia ci sono stati grandi personaggi politici del passato che hanno avuto ruoli di primo piano, anche di governo, fin da giovanissimi. 

«Sì. Magari hanno iniziato da giovani, ma hanno fatto una serie di esperienze, dentro o fuori la politica. Un tempo si arrivava a fare il ministro o il presidente del consiglio dopo aver accumulato comunque significative esperienze, anche fin da un’età precoce. Oggi è sempre meno così, e non solo in Italia: anche in Austria, per esempio.

Secondo me, però, è un trend che è destinato a finire. Una politica considerata semplice perché all’interno di un sistema e di un mondo piatto, un sistema segnato segnato dalla “fine della storia” in cui la politica aveva un ruolo marginale. Ma quando la Storia torna, la politica torna a essere più complessa e si cercano anche profili più esperti». 

Chi meglio interpreta il ‘giovanilismo’ oggi nella politica italiana secondo lei? 

«I 5 Stelle ne hanno fatto una vera e propria battaglia, con l’idea che essere giovani e inesperti sia un valore perché ti garantisce il fatto che quella persona – giovane e inesperta – sia fuori dal sistema. Solo che molto spesso, così, semplicemente non si hanno le competenze di base per fare il proprio lavoro. E quindi la politica diventa – anche al governo – una dimensione di totale spettacolo. Staccata dai risultati. Ma pensiamo anche alla Lega di Matteo Salvini: il partito ha esperienze molto radicate sul territorio. Ma ha scelto come leader uno che non ha mai gestito niente. Mai, neanche un comune. E l’esperienza gestionale al governo, macchina gigantesca, è un tema cruciale». 

Quindi cosa dovrebbe fare un partito oggi? 

«Bisogna incominciare a scegliere tra coloro che amministrano. È quello che ho fatto con “Siamo Europei”, perché secondo me quello è il pezzo ancora che mette insieme idealità e gestione. Per me è essenziale, perché se manca la capacità di implementare qualcosa, è come se quel qualcosa non esistesse. Per me, per esempio, è stato molto utile fare prima il viceministro e poi il ministro: mi ha fatto capire molti meccanismi, molte complessità, e quando sono arrivato a capo di un dicastero sono stato più consapevole. Eppure anche così, in ogni passaggio, ho avuto sempre la mia dose di timore di non riuscire. Un timore di non riuscire che vedo pochissimo in Matteo Salvini e Luigi Di Maio. È tutto molto assertivo: fin dal primo giorno sanno tutto quanto, sanno come si fa, non sbagliano mai. Mi sembra un po’ una sceneggiata». 

E però la loro politica ha, oggi, consenso. Come si suggerisce un approccio differente?

«Lo si vedrà quando si faranno male. Quando si capirà – secondo me molto presto – che in politica gli effetti delle scelte che vediamo su Twitter tra una Nutella e l’altra sono scelte che poi, in un periodo della storia complicato, colpiscono molto violentemente. E lo fanno normalmente tutte insieme». 

E come spiegare invece agli elettori un approccio diverso, visto che quello attualmente al governo appare dai sondaggi molto apprezzato?

«Nelle esperienze che comportano una gestione. Lo so che sono termini che appassionano poco, ma è necessaria l’esperienza, per gestire strutture complesse. Ecco perché ho consigliato al nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti di attingere per i ruoli dirigenziali agli amministratori locali per i ruoli dirigenziali del partito. Certo, alcuni sono meno buoni, se pensiamo per esempio all’Umbria, ma il Pd ne ha ancora di ottimi e di grande qualità».

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