Teatro di Pompei restaurato con tufo e cemento: multa di 400mila euro per l’ex commissario

Stravolgimenti del sito archeologico e container metallici in bella vista. Il progetto di ristrutturazione di Marcello Fiori non ha convinto né le autorità ministeriali né la Corte dei Conti

Tufo e cemento per rilanciare il Teatro Grande di Pompei. Era questa la visione dell’ex commissario Marcello Fiori, che, con lo scopo di trasformare l’area in «un’Arena di Verona del Sud» capace di ospitare spettacoli a pagamento, ha trasformato uno dei più importanti siti archeologici al mondo in un cantiere urbano. Risultato? Una multa da 400mila euro da parte della Corte dei Conti, come racconta il Corriere della Sera.


Era il 2010 quando il presidente dell’Osservatorio archeologico Antonio Irlando si rivolse preoccupato al Ministero dei Beni Culturali dopo aver fatto visita al sito in ristrutturazione. Parlò di «stravolgimenti» generali e di una cavea «ricostruita completamente ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura». E poi martelli pneumatici utilizzati senza cura del luogo, betoniere, bob kart, ruspe, cavi, levigatrici. Container metallici nel cuore dell’area, presenti e visibili ancora oggi.


La filosofia dello “show must go on” non ha convinto nemmeno i consiglieri della Terza Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello, che valutando tanto il rapporto tra l’operato e i costi (il preventivo iniziale era di 449.882 euro più Iva, il costo effettivo è stato di 5.778.939 più un altro centinaio di migliaio di euro), quanto il risultato finale, hanno definito l’operazione «gravemente lesiva dell’interesse generale».

La tutela del patrimonio artistico non può essere sacrificabile, dicono, ai fini dello spettacolo. Secondo i giudici, pur di fare in fretta Fiori «passò sopra tutto, sopra le regole stabilite dalle stesse ordinanze di Protezione Civile, sopra le norme in materia di appalti, sopra il codice dei Beni Culturali». E passò sopra anche alle verifiche di compatibilità tra sponsor e tutele delle bene archeologico.

«La valorizzazione del bene culturale non può essere assimilata al mero “sfruttamento” dello stesso per fini di natura imprenditoriale e commerciale», si legge ancora nella sentenza. «Né deve in alcun modo alterare le caratteristiche fisiche del bene o ridurne la fruibilità pubblica, posto che il bene culturale, e soprattutto quello archeologico che cristallizza la nostra storia, resta sempre il bene pubblico per eccellenza».

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