Strasburgo boccia l’Italia sull’ergastolo: «Viola i diritti umani»

La Corte europea dei diritti umani ha bocciato la legge italiana sull’ergastolo a vita, il cosiddetto “carcere ostativo“, e con una sentenza ha condannato l’Italia a pagare 6mila euro di spese legali di un condannato e ha chiesto che la norma sia riformata. Secondo i giudici di Strasburgo, infatti, la legge viola l’articolo 3 della convenzione europea sui diritti umani, ovvero il divieto di trattamenti degradanti e inumani. La decisione, che in assenza di ricorso diventerà definitiva tra tre mesi, è stata salutata dall’associazione Antigone come «una decisione di grande rilievo in cui si è stabilito che la dignità umana viene prima, sempre». Parla invece di un «pronunciamento storico» l’associazione Nessuno tocchi Caino, sottolineando che la sentenza «svuota l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario che prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia».


Il ricorso

La sentenza è stata emessa sulla base del ricorso presentato da Marcello Viola, in carcere dall’inizio degli anni Novanta per associazione mafiosa, omicidio, rapimento e detenzione di armi. L’uomo, che finora ha deciso di non collaborare con la giustizia, si è visto rifiutare le richieste per i permessi premio. Nella sentenza la Corte gli ha accordato 6mila euro per le spese legali ma nessun risarcimento per i danni morali. Viola aveva chiesto 50mila euro.


Cosa prevede l’ergastolo ostativo

I giudici hanno stabilito che «è inammissibile deprivare una persona delle sue libertà, senza tendere alla sua riabilitazione e offrirgli la possibilità di riottenere la libertà in futuro». L’ergastolo ostativo, infatti, prevede – tra le altre cose – che il condannato non possa ottenere, come gli altri detenuti, nessun sconto di pena e permessi d’uscita, a meno che non collabori con la giustizia. Questa scelta, però – fa notare la Corte di Strasburgo – non è “libera”, perché alcuni condannati hanno paura che questo «metta in pericolo la loro vita e quella dei loro familiari».

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